La Cartina della felicità: Abbiamo tutto, ci manca la speranza

Carissimi,

 

nella lettera precedente ho dato voce al “cahier de doléances” visto che attorno a noi si registrano smarrimento e desolazione causati da guerre, sopraffazioni, scempi ambientali, violenze di vario genere… Tuttavia il mese di Dicembre si apre quale risposta all’eco di disperazione che permea di sé il nostro quotidiano, mese di attesa e stupore, alimentato e ravvivato dalla “speranza”, luce di Cristo per il mondo.

Il mio intento non è quello di fornire un excursus filosofico-teologico sulla virtù teologale della speranza, quanto allargare l’orizzonte della fede per cogliere l’urgenza della doppia fedeltà a Dio e all’uomo. Vivendo in questa generazione accerchiata da migliaia di speranze storiche, politiche, sociali, culturali, ecclesiali, …, tradite o fallite, serve oggi molto coraggio per continuare a sperare.

Padre Ernesto Balducci, scrittore e intellettuale molto incisivo a cavallo del Concilio, diceva: “Abbiamo tutto, ci manca la speranza… ragione di vita che ci faccia vivere sempre in attesa, con il cuore un po’ più in là dei nostri passi”.

E l’Avvento, iniziato da pochi giorni, è il tempo della speranza e del desiderio.  In questo periodo, infatti, mentre aspettiamo la manifestazione del Signore Gesù, è proprio la liturgia che in noi getta il seme del desiderio di una conoscenza più intima, più profonda di Lui.

Ci prepariamo ad accogliere il Santo Bambino di Betlemme, qui tra la confusione delle nostre vite. Facciamo silenzio nel cuore, tenendoci per mano, certi che Lui è tra chi cammina al nostro fianco, quel prossimo che è da intendersi presepe vivente in una società consumistica e arrivista. Vedere con gli occhi della tenerezza è un aprirsi dell’anima, altrimenti il Natale rischia di rimanere una festa celebrata nell’indifferenza e nell’egoismo del nostro io.

La Parola insegna che per poter accogliere la speranza bisogna accettare di essere manchevoli di qualcosa, di non avere ciò che desideriamo, perché chi è sazio non spera più.

Ci riscopriamo bisognosi dell’afflato di Assoluto: un atteggiamento dell’anima che non ammette ritardi, ma ci rende solleciti nel pensare questo tempo di attesa quale occasione per stare dentro un mistero d’amore, preziosità di un dono che viene da Dio e che ci unisce ai fratelli, gioia indicibile, mai assaporata prima.

Così nel Magnificat Maria canta che Dio ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Così pure Isaia, in un brano tipico in Avvento (25, 6-10), ricorda che bisogna rinunciare alle soddisfazioni immediate e aspettare l’intervento di Dio che dona la vera felicità.

Nel buio e nel silenzio della notte, ancora una volta ci avviciniamo alla Luce, nonostante il dolore, la malattia, le scelte sbagliate, la tristezza o i timori del domani.

Il Natale continua a chiamarci davanti a quella capanna; sta a noi saper rispondere.

Fra i tanti brani della Bibbia che parlano di “speranza” la mia scelta, paradossalmente, cade sul Salmo 130 (129) “Dal profondo a te grido, Signore”, meglio conosciuto come “De profundis”, che tanti purtroppo ricollegano solo alle liturgie funebri. Eppure questo salmo è un grido di speranza. Vi chiedo di leggerlo con calma per intero.

Com’è possibile? Il salmista sembra essere nella disperazione, ma dicendo “Io grido verso di te, Signore” e ancora “Signore, ascolta il mio grido”, osa innalzare il suo canto verso Dio.

Anche se conosce la prova, egli pone la sua fiducia in Dio.

Allora il cammino problematico diviene itinerario di fiducia e attesa, simile a quello di Abramo che “sperò contro ogni speranza” (Rm 4,18): sperò nella disperazione, quando non c’era proprio più niente da sperare. E come se non bastasse, Dio gli chiede tutto, addirittura di partire senza mèta. Che cosa fa mettere in cammino Abramo? La parola di Dio, solo questa!

Allora, portati sulle sue spalle, pieni di gioia, avremo nuove visioni e nuovi sogni, glorificando Dio.

Chiediamoci: che cos’è la speranza?

La risposta è contenuta nel salmo citato, dove comprendiamo che essa è molto più di un ottimismo umano. Sperare è vivere con la convinzione interiore che ciò che si desidera arriverà, prima e meglio di “come le sentinelle attendono l’aurora”, anche se non lo si vede nell’immediato. Il tutto riecheggia nel lessico di S. Paolo: “Nella speranza [infatti] siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8,24s).

Il mistero è che spesso questo lo si apprende quando si è nel profondo di un abisso, quando il solo mezzo per andare avanti è avere fiducia.

La speranza ha bisogno di radici, di fondamento. Quella del salmista è fondata sull’amore di Dio e l’orante sa che questo amore è il perdono: “Presso di Te è il perdono”.

La sua attesa fiduciosa si fonda sull’esperienza incondizionata dell’amore di Dio.

La speranza non ci isola, ma al contrario ci apre alla relazione con gli altri.

Essa è comunicativa e comunitaria, perché scandita da obiettivi, itinerari e sostegno reciproci.

Anche le moderne scienze antropologiche ribadiscono la necessità per l’essere umano di sperare, non come un’intima proiezione o illusione, bensì come un obiettivo le cui ragioni ognuno deve trovare in se stesso per agire, poi, in funzione di quanto maturato. E anche questo richiede di mettersi in cammino.

In questo tempo forte dell’anno liturgico, nel quale attendiamo il ritorno di Dio e a Dio, vogliamo riscoprire la bellezza della seconda virtù, aiutati dalle parole di due provocatori: Charles Péguy e don Tonino Bello.

Del primo faremmo bene a rileggere “Il portico del mistero della seconda virtù”, un poema nel quale l’autore immagina Dio che parla con se stesso e non si meraviglia tanto della presenza nel mondo delle virtù della fede e della carità…Ma quando arriva alla speranza, il buon Dio non capisce come essa possa esistere, come sia possibile che gli esseri umani pur vedendo che le cose vanno malissimo, ciò nonostante sperano che domani andrà meglio. Ed è qui che il poeta afferma “l’Espérance est une petite fille de rien du tout” (“la speranza è una ragazzina da nulla”) e poi conclude, facendo parlare Dio: “questa piccola fiamma che vacilla ad ogni soffio di vento, non riesco a capire come possa essere così fedele, così costante, così ferma”.

Dio è il primo a non capire, a rimanere sorpreso e sbalordito.

In una battuta: la speranza fa miracoli!

Voglio concludere questa riflessione, facendo risuonare le parole di un altro poeta, don Tonino Bello.

Sebbene la preghiera, di cui trascrivo la parte conclusiva sia stata pensata per il tempo pasquale e risenta degli echi di Pentecoste, penso sia un balsamo proprio in questi giorni così travagliati.

Per coglierne la portata globale, vi chiedo di rintracciare sul web il testo intero.

 

Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, 

torna a parlarci con accenti di speranza.

Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio.

Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.

Dissipa le nostre paure. Scuotici dall’omertà.

Liberaci dalla tristezza di non saperci più indignare per i soprusi consumanti sui poveri.

E preservaci dalle tragedie di dover riconoscere che le prime officine della violenza e della ingiustizia sono ospitate dai nostri cuori.

 

Auguro a tutti che il Dio della speranza riempia di gioia e pace il cuore di ogni persona.

 

Ettore Sentimentale

parrocchiamadonnadelcarmelo.it