Dopo due anni di dilagante pandemia, stiamo riprendendo il ritmo della vita normale, segnati da un’esperienza drammatica e paradossalmente positiva per l’esistenza di quanti hanno compreso fino in fondo l’importanza del prendersi cura gli uni degli altri.
Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, paesino sperduto del Mugello, sessant’anni addietro instillava nei suoi ragazzi l’espressione “I care” (lett. “ci tengo”), espressione questa che racchiude in sé un’accezione carica di significato perché tenere a qualcuno significa farsi carico di responsabilità, assumersi piena consapevolezza di tutte le conseguenze di una scelta, portare dentro il proprio cuore l’altro. Nel momento specifico che stiamo vivendo, noi cristiani siamo chiamati alla missione evangelizzatrice attraverso la testimonianza della diakonìa, ovvero mediante quel servizio che deve e necessita di essere rivolto verso tutti e non alcuni.
Risuonano, all’inizio della presente riflessione, le parole del pastore luterano D. Bonhoeffer che, in Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, diceva: “La Chiesa è Chiesa soltanto se esiste per altri”. Tali parole sono eco, risonanza, sonorità dell’azione pastorale di una comunità a contatto con la vita del Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire (in greco: diakonései) e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,45).
Benché segnata da tante perdite umane, anche la Chiesa ha assistito le persone più vulnerabili e le famiglie più povere a causa del rincaro di cibo, medicine e beni di prima necessità. Ha cercato e continua a collaborare con le organizzazioni e le istituzioni sociali, mediante l’impegno operoso e il fare silenzioso di tanti religiosi e laici coinvolti, insieme, al fine di garantire un servizio adeguato per numerosi fratelli. A mente serena, possiamo dire che la tensione fra la vita comunitaria e il servizio reso ai bisognosi ha avuto effetti benefici, risvegliando le comunità parrocchiali, i movimenti e le associazioni ecclesiali. Dare è verbo coniugato col servire e col servizio si cresce nell’amore.
È vero che, nel periodo più intenso della pandemia, si è ripresentato il rischio di ricadere in una nuova forma di assistenzialismo, dal quale bisogna sempre più guardarsi.
È bene, quindi, ribadire e precisare che il servizio della Chiesa vuole e deve essere profetico.
Ciò è richiesto dal Signore e si rende visibile nell’impegno per una giustizia più ampia.
Il servizio “ad extra”, ovvero svolto all’esterno della Chiesa, fuori dal tempio lungo i sentieri che l’uomo cosmopolita percorre oggi, sulla falsariga di Fratelli Tutti 181 (terza enciclica di papa Francesco), è motivato dal fatto che l’amore non si esprime solo nelle relazioni intime, ma anche in quelle sociali, economiche e politiche. Deve entrare in relazione con i vari tasselli che compongono il contesto nel quale vive il cristiano, come singolo, e la comunità, come gruppo.
Ed è evidente che è proprio in questa circostanza storica, sociale, ecclesiale che il concetto di sinodalità, sul quale ci stiamo interrogando, non avrà ricadute solo sulla vita interna della Chiesa, dentro cioè il microcosmo parrocchiale, quanto piuttosto dovrà divenire servizio per la promozione sociale, politica ed economica, diakonìa contrassegnata dall’impegno per la giustizia, la solidarietà e la pace, inserendosi nel macrocosmo socio-culturale di riferimento.
È lecito porsi un interrogativo: Perché i cristiani sono chiamati ad agire in tale direzione?
Facile risulta essere la risposta: per il semplice motivo che essi incarnano nel proprio corpo lo stile dei discepoli di Gesù, di coloro che seguono il Maestro e come Lui sono fedeli a Dio e all’uomo.
Nel concreto significa che se da un lato danno testimonianza della responsabilità e della solidarietà con cui entrano in contatto con gli uomini, dall’altro sanno che – come Gesù – dovranno far trasparire la cura, il coraggio, la tenerezza, l’umiltà e la pazienza. Essere e non apparire!
Cari amici, queste caratteristiche (o “virtù”, se volete) compongono l’habitus del cristiano, descrivono la sua identità che non può essere delegata ad altri o divenire il pretesto per abbandonare il campo della vita, secondo la felice indicazione della Lettera a Diogneto: “Dio ha posto i cristiani in un luogo tanto elevato, che non è loro permesso di abbandonarlo”. Sono parole a noi lontane nel tempo, ma attuali nella situazione che siamo chiamati a vivere nell’oggi della nostra esistenza perché il cristiano non può permettersi di essere isola, di vivere cioè la vita esclusivamente vincolata alla sua persona e ai suoi affetti, di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia sociale, di tacere per non avere problemi; ma in relazione al posto che occupa nella società deve far sentire la sua voce, divenire quella presenza autentica e trasparente del Cristo, di cui si dice seguace, cantare il fiorire del rapporto umano che, superando i tabù socio-culturali, trasforma l’identità umana.
Attenzione a non illudere noi stessi, pensandoci sempre nel giusto in una società di ingiusti e malfattori!
Vivendo le nostre giornate in modo frenetico, passiamo accanto agli altri e spesso, indifferenti e chiusi nei nostri problemi, neppure ci accorgiamo di loro. Sazi della nostra religiosità passiamo accanto e, come il sacerdote o il levita della parabola, non vogliamo essere turbati dai loro problemi né essere messi in discussione dalla loro presenza.
Preferiamo un culto profumato di incenso, ma vuoto d’amore; nel tempio eleviamo preghiere, certi di essere ascoltati, ma nella vita non apriamo il nostro cuore al grido di chi è nel dolore. Tutti abbiamo sperimentato l’abbandono, la solitudine, il peso di qualcosa che sovrasta. E in tale situazione, tanti abbiamo avuto la tentazione di trascurare gli altri, disinteressandoci.
Il papa ha riflettuto su questo gap e ha scritto: Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti, ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate (FT, 64).
Parafrasando la parabola del “Buon Samaritano” (cfr. Lc 10, 25-37), il papa invita ancora a ravvivare la nostra vocazione di cittadini del nostro paese e del mondo intero, per diventare costruttori di un nuovo legame sociale (cfr. FT, 65). Il Samaritano è paradigma dell’atteggiamento d’amore con cui risponde al grido di sofferenza del malato e attraverso cui fare esperienza della risposta di Dio ai nostri bisogni, recuperando la matrice autentica del concetto di prossimo. Sentire forte l’anelito a recuperare il senso della vita, a conquistare una religiosità che tocca la vita è la carica che trasmette l’uomo di Samaria, giacché la vera compassione apre gli occhi sul valore delle cose.
L’uomo è solo un uomo; ma è l’uomo, immagine di Colui che è!
Passare accanto è conoscere coloro che fanno parte della comunità parrocchiale; è imparare a guardare il loro volto con gli occhi di Dio; è imbattersi nelle ferite, nelle ansie di chi è colpito da malattia, handicap, solitudine affettiva; è udire il lamento dell’angoscia esistenziale di tanti giovani; è vedere le lacrime dell’anziano solo o rinchiuso in un ospizio in attesa della fine.
Passare accanto è mettere in moto cuore, mente e mani perché gli uomini non si sentano più soli nel loro soffrire e perché il territorio sia più abitabile.
La fine del discorso è scontata: siamo disponibili al cambiamento? siamo disposti noi a cambiare?
Concludo con le parole di papa Francesco: “scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri” (Ft, 35).
Auguri per un’estate all’insegna della distensione e di sani momenti di aggregazione,
Ettore Sentimentale