La Cartina della felicità: Dio non si impara a memoria, ma si vive!

Carissimi, è conclamato da più parti, a cominciare dal magistero di papa Francesco, che viviamo un tempo di crisi ecologica, economica e sociale, di guerre che seminano distruzione e povertà, di cultura dell’indifferenza e dello scarto, di menti confuse e oppresse dall’inerzia.

Tali fenomeni generano un clima pesante e angosciante, nel quale l’uomo comune sembra avere smarrito i punti di riferimento; ma è sul Calvario che incontriamo noi stessi. Forse, mai come oggi, il bisogno del soprannaturale ha invaso la mente e il cuore dell’essere umano, chiamato a un urgente impegno di solidarietà storica.

La situazione globale si ripercuote anche sul tessuto vitale della Chiesa e delle comunità cristiane, che in un certo qual senso si ritrovano nella preghiera di Azaria (cfr. Dn 3,34-43), nella quale gli esuli rimpatriati si identificano con gli umiliati di tutta la terra a causa dei loro peccati e confidano di poter essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato perché chiedono al Signore di agire secondo la sua clemenza e la sua grande misericordia. Nell’intimità profonda Dio aiuta l’uomo a superare i confini angusti del proprio io, per aprirsi con coraggio all’impegno di comunione con i fratelli e ad un servizio sociale e politico. Dio è Amore che fa ripartire la vita.

L’intento della presente riflessione vuole essere quello di individuare e articolare alcune dinamiche necessarie a una comunità, quasi una sorta di paradigma di interventi, al fine di aiutarla – alla luce della Parola – a superare le inevitabili difficoltà nel ricomporre un quadro sereno per vivere le relazioni e gli incontri fra i suoi membri. Se oggi Dio sembra più difficile da inseguire, perso come un barbone, per usare le parole di Turoldo, nell’intreccio delle nostre giungle d’asfalto, il presente sa rivelare tanti germogli inattesi, segnali che il vento dello Spirito soffia pollini vitali dentro la nostra storia. Contro tutti i profeti di sventura, contro il clima di pessimismo che ci avvolge, la Parola è ancora qui a parlarci parole di vita piena. Tuttavia, prima di inoltrarsi nel confronto con la Scrittura, serve un’inevitabile precomprensione che faccia da comune denominatore nell’analisi e nella proposta degli interventi.

Occorre innanzitutto un’attenzione seria alla realtà così come essa si presenta, senza sminuire o minimizzare né esagerare o enfatizzare. Nel caso specifico, la crisi attuale non può essere confusa banalmente con un lieto evento né essere vissuta come una catastrofe.

Il secondo passo consiste in un atteggiamento etico lineare, che postula una coerenza pratica fra quanto si dice e come lo si vive.

L’ultimo gradino richiede a tutti gli interessati un approccio “proattivo”, vale a dire costruttivo, capace di pianificare le azioni opportune nel tempo.

È chiaro che tale schema può essere applicato a svariati ambiti, dalla politica alla religione, sui quali si intende intervenire e, se condotto con onestà intellettuale, porterà i suoi frutti.

Nello stesso tempo, è possibile usufruire di un tale modello per una serena valutazione dell’azione intrapresa. Ciò potrebbe fare emergere dei vari interventi i punti di forza e i punti di debolezza, quelli negativi e quelli positivi.  Purtroppo tale paradigma, di fatto, viene quasi sistematicamente respinto fino ad arrivare, a grandi linee, direttamente all’immagine della costruzione della casa… sulla sabbia!

A ben guardare, davanti alla devastazione cui accennavo prima citando Dn 3, 34-43, la Scrittura offre notevoli spunti per organizzare una lenta ma sicura ripresa, che cancelli la miseria e la desolazione, nelle quali il popolo si era ritrovato, soprattutto dopo l’esperienza dolorosa della deportazione a Babilonia, l’esilio e il successivo rientro in Gerusalemme.

Di questi fatti ne parlano i libri di Esdra e Neemia.

Davanti alle atroci sofferenze di molti che hanno perso tutto, il popolo non può restare indifferente e ritrova in se stesso, aiutato dai capi, la motivazione per fare qualcosa.

Invece di piangersi addosso, i giudei si mettono al lavoro per rialzare le mura di Gerusalemme, consapevoli – sulla scia di Davide: “Nel tuo amore fa’ grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme” (Sal 51,20) – che “se il Signore non costruisce la città, invano faticano i costruttori “(Sal 127,1).

La ricostruzione, però, incontra inevitabilmente degli ostacoli che inducono gli operai a “pregare il loro Dio” e a “mettere sentinelle di giorno e di notte per difendersi dai nemici” (Ne 4,3).

Da ciò emerge che, mentre Neemia fa da coordinatore, tutte le persone si sentono individualmente ed equamente responsabilizzate e il singolo sa come svolgere il compito, a cui è chiamato. Il tutto si lega ad un ulteriore e breve approfondimento.

Oggi, salvo alcuni ambiti particolari, si vive secondo la logica della delega.

Ognuno vive nel proprio guscio e si sveglia solo quando un problema lo tocca direttamente. E ciò avviene a livello socio-politico e anche religioso.  Don Lorenzo Milani, maestro sincero e diretto nel suo insegnamento, per la scuola di Barbiana coniò un motto profetico: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”.

Dio non si impara a memoria, ma si vive!

Dunque, a risorgere sono chiamati i vivi prima che i morti, da tutte le vite spente, inutili, immobili.

Ai nostri giorni, al di là delle sbandierate demagogie di apertura e confronto, nel popolo vige l’assenza o meglio la latitanza di una partecipazione reale e ci si accontenta di un’adesione formale alle varie strutture sociali: scuola, parrocchia, politica. Forse anche perché ancora non vengono aperti (perfino nelle parrocchie!) spazi di vera condivisione.

Nello specifico che mi compete, senza voler graffiare alcuna persona chiedo: perché oggi i cristiani non riescono a fare un’analisi della realtà che li circonda e si lasciano trasportare da comode spiritualità stagionali? Che cosa manca? Forse, la fiducia.

Eppure, Dio ascolta i piccoli che “gridano notte e giorno verso di Lui” (Lc 18,7), Lui “protettore degli sfiduciati, salvatore dei disperati” (Gdt 9,11).

Ai cristiani si richiede, quindi, la lucida convinzione di dover agire concretamente e non solo con i pii desideri. Secondo Ermes Ronchi, la croce è l’abisso, dove Dio diviene l’amante. È qualcosa che mi stordisce: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che mi ha dato da mangiare e non gli è bastato; lo vedo pendere nudo e disonorato, e devo distogliere lo sguardo. Poi, torno a guardare la croce e vedo uno a braccia spalancate che grida: ti amo. Proprio a me? Morire d’amore è cosa da Dio.

Per non essere utopistico, si impone qualche altra domanda.

Di fronte ai grandi problemi odierni (profughi di guerre, immigrati più o meno clandestini, solitudine degli anziani, smarrimento dei giovani, …) i cristiani concretamente come pensano di reagire?  Se vogliamo essere pietre vive, dobbiamo sostare con le donne che stanno sotto la croce, accanto alle infinite croci del mondo, dove Cristo è ancora nei suoi fratelli crocifisso, annegato, ricacciato via. Occorre saper e voler vegliare con Maria nei luoghi dove ancora oggi continua la passione del Figlio, per portarvi conforto, consolazione, pane spezzato, umanità, vita, speranza. Solo così a Pasqua sentiremo la nostra vita rotolare armoniosamente nelle mani di Dio.

La concretezza dell’intervento comporta, altresì, di conoscere le dinamiche che danno diritto di cittadinanza a tali crisi contemporanee. Papa Francesco, sulla scia degli Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola, ha ribadito più volte che il cristiano dev’essere vigilante di fronte agli attacchi di chi subdolamente nuoce alla fede, alla carità e alla speranza e che presenta come inutile l’impegno a costruire un mondo migliore, dove la giustizia ha stabile dimora.

Per essere vittoriosi in questa lotta bisogna munirsi dello scudo della fede che aiuta a resistere e restare saldi (cfr. Ef 6,11-17). Lo ha capito per primo non un discepolo, ma un estraneo.

Dopo la morte del Cristo, il primo atto di fede è quello di un centurione. Non da un sepolcro che si apre, non da uno sfolgorio di luci di un sole mai visto, ma davanti e dentro le tenebre del venerdì, sul trono dell’infamia, quest’uomo esperto di morte dice: Davvero costui era Figlio di Dio.

Inizia la settimana suprema, la settimana centrale della storia e della fede, e improvvisamente il tempo rallenta e si dilata, chiamato a seguire giorno per giorno un Dio che viene nella mia città, anonima e piena di volti, nel mio paese amato e supportato, da cui fuggo e a cui ritorno, nel mio contorto cuore, nella mia vita.  Per Lui non esistono città inabitabili, nessun uomo cui non dica: Oggi devo fermarmi a casa tua (Lc 19,5). Entra nella mia casa, nel mio mondo Uno che scardina le regole: era un bambino in una mangiatoia, viene disarmato, cavalcando un asino, pende dalla croce, risuscita e si dà nell’umiltà del pane e del vino. E mi giudicherà con queste parole:

Avevo fame, avevo sete, ero forestiero.

Cari amici, abbiamo iniziato l’itinerario quaresimale supportati dalla vittoria di Gesù contro il tentatore, vogliamo concluderlo convinti che la forza della misericordia divina ci abilita a percorrere una strada nuova, lastricata dalla responsabilità personale e comunitaria, per godere con Cristo la gioia della risurrezione, mettendo il nostro respiro in sintonia con quell’immenso soffio che incessantemente unisce il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, l’istante e l’eterno, la nostra povertà e la ricchezza di Dio.

 

Buona Pasqua!

 

Ettore Sentimentale