La cartina della felicità: Nel deserto raggiunti dalla grazia

Domenica scorsa (21 febbraio) abbiamo celebrato la prima domenica di Quaresima che, in ogni ciclo liturgico, è contrassegnata dal brano delle tentazioni, secondo le caratteristiche specifiche di ognuno dei sinottici. Dalla proclamazione del brano telegrafico, asciutto, ma al contempo pregnante del Vangelo di Marco (Mc 1, 12s) abbiamo appreso come persino il Messia non sia indenne dalla tentazione, perché questa è una prova ineludibile con la quale bisogna fare i conti sempre e continuamente.

La presente riflessione, traendo origine da questa pagina evangelica, si snoda e si articola in una sorta di saggio e/o prova attitudinale, in quanto vuole essere un test rivolto nello specifico ai preti, ma che ad ampio raggio potrebbe raggiungere, quali ulteriori destinatari, proprio le comunità parrocchiali e da esse non sono escluse altre forme aggregative, ovvero associazioni, gruppi, movimenti, comunità di formazione, etc …. Il fine rimane quel discernimento, personale e comunitario, ovvero quell’atto di riflessione, buonsenso, saggezza o ragionevolezza da compiere in questo tempo forte dell’anno liturgico e che tutti, nessuno escluso, siamo invitati a rendere operativo e fattivo nell’intimo delle nostre coscienze e nel segreto del nostro essere.

Infatti, non vi è alcuno tra noi in grado di poter affermare: “di quest’acqua non ne bevo”.

Tuttavia, occorre puntualizzare che non trattasi di un vero e proprio esame di coscienza, ma di semplici provocazioni bibliche con ricadute pastorali.

Se il ruolo proprio del diavolo (dal verbo greco dia-ballo=separare) è quello di essere il “divisore”, allora il sedurre e l’attirare diventano una sua propagazione, che sfocia nel culto della personalità del prete, in prima battuta, e dei componenti della comunità, a cascata. A ciò si aggiunge, in climax ascendente, quel fenomeno che è possibile definire sindrome dell’essere i migliori, vera sintomatologia che serpeggia oggi all’interno di parecchie comunità cristiane, con la benedizione – più o meno esplicita – dei responsabili che vengono visti come “presbiteri formidabili”, ammaliatori con grande capacità di ascolto e abili comunicatori.

Il passo successivo, quasi impercettibile all’occhio umano, di tale conclamata superiorità è contrassegnato dall’isolamento: scatta nell’essere umano la capacità di separarsi e apparire disgiunti dall’unità che, in sostanza, dovrebbe esserci dentro la realtà unica proprio perché ecclesia. È preferibile, pertanto, mantenersi lontani dalle altre comunità per evitare “contagi” pericolosi e, al contempo, quale fenomeno causa-effetto, si allontanano le restanti comunità per tenere a distanza di sicurezza gli “estranei” che potrebbero mettere il naso in faccende che non li riguardano. È Il momento in cui si rompe con l’esterno e non si accetta alcuna proposta di ampio respiro pastorale né alcun confronto sulle scelte portate avanti dalla chiesa locale.   Ormai ci si è avvitati talmente bene su se stessi e nelle proprie convinzioni da assomigliare al “verme delle mele”, la carpocapsa… La cosa più triste, a mio avviso, è quella che si riesca a vivere ed operare all’interno della comunità con la finalità verbalmente dichiarata di servirla, ma, di fatto, spesso si finisce con il servirsi di questa, come i parassiti che vivono alle spalle dell’oggetto aggredito.

Ma come avviene ciò, dal momento che questa analisi oggettiva sfugge alla comprensione di molti? Semplice! Per vivere “felici e contenti” in tale contesto si opera mettendo in atto una subdola manipolazione, che rappresenta il rovescio della medaglia del condizionamento.

È l’opera per eccellenza del maligno che furbescamente, manipolando desideri e prospettive fasulle, riesce a far apparire bello e buono ciò che, in realtà, è marcio. In questo momento, i componenti del gruppo smettono di usare la ragione e si fanno imbonire con discorsi che rasentano il delirio…da qui in avanti qualunque indicazione del pastore della diocesi non ha alcun senso, se intacca il “normale fluire” della “ipnotica vita comunitaria”, anzi si dirà, senza troppi giri di parole, che ci si trova di fronte all’ennesima impostura.

Qualcuno storcerà certamente il naso, leggendo questi passaggi, ma farebbe bene a chiedersi se nel contesto in cui vive non venga utilizzata la “trasparenza” (termine che confina con “parresìa”=“franchezza”) con l’unico scopo di controllare il pensiero di tutti e se nel gruppo di appartenenza non vengano sistematicamente emarginati coloro che pongono quesiti.

Si giunge così all’ultima tappa che dà colore e spessore al gruppo: approfittare di tutto e di tutti per restare a galla, gettando fango sull’altro pur di brillare agli occhi degli uomini.

E da quest’ultimo gradino trasuda l’incoerenza tra fede e vita, dando finalmente il nome appropriato alla comunità: setta!

Proviamo, in questo itinerario quaresimale attraverso la conversione e la fede nel Vangelo (cfr. Mc 1,15) almeno a smascherare l’asse del male che non passa tra l’esterno e noi, tra le comunità e il mondo, ma piuttosto all’interno di noi.   Nessuna comunità è esente dalle tentazioni del potere, dell’avere e del godere, di un ego dominante e irrompente; ma la presenza di queste derive è ancora più grave quando si trovano là dove si avrebbe il diritto di incontrare dei testimoni di Dio e di assaporare i frutti di santità.

 

Ettore Sentimentale