Questa riflessione è da leggersi quale risonanza dell’esperienza di preghiera vissuta durante l’Adorazione comunitaria dell’Eucaristia tenutasi la sera del Giovedì Santo…
Il tema scelto, illuminato dai brani biblici e dai canti, ruotava attorno alla riscoperta della speranza. Il motivo di tale opzione penso sia facilmente comprensibile: oggi più che mai abbiamo bisogno di attingere alle sorgenti della speranza, proprio quando il mondo naviga in acque agitate, scosso dai venti di violenza, abomini, nefandezze e disperazione acuta, che lasciano nel cuore il timore di un non ritorno. Non mi riferisco solo alle notizie raccapriccianti che provengono dal fronte della guerra in Ucraina, quanto al pervasivo atteggiamento di molti cristiani che si lasciano andare, come se la speranza non fosse in loro, tralasciando – come dice l’apostolo Pietro – di essere “sempre pronti a rendere conto della speranza che è in noi” (1 Pt 3,15).
Ripercorro con chi era presente le tappe più significative per dare alimento spirituale alla nostra esistenza; a tutti gli altri offro la gioia profonda dell’incontro con il Signore.
Il primo momento di analisi e riflessione è contrassegnato dal Salmo 130, attraverso cui abbiamo compreso che “sperare” significa vivere nella condizione interiore che l’anima nostra attende e desidera il Signore più che le sentinelle l’aurora, anche se non lo si vede nell’immediatezza del momento presente. L’anelito di preghiera rivolto a Dio, ricco di perdono, risveglia in noi miseri attesa e fiducia, certi che saremo liberati dalla penosa condizione nella quale è possibile trovarsi.
Ne segue il testo paolino della Lettera ai Romani (Rm 8,24-25), dove nello specifico l’Apostolo dei Gentili elabora e chiarisce in modo sintetico, ma preciso, un asserto fondamentale per comprendere tale virtù teologale: “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza”.
Al di là della bella definizione riportata da San Paolo, dobbiamo dire che la speranza ha bisogno di radici che affondano nell’amore di Dio che si fa perdono, capaci di cercare instancabilmente e riscoprire in noi la bellezza profonda dell’animo umano. Chi spera cammina, non fugge! Si incarna nella storia. Costruisce il futuro, non lo attende soltanto! Ha la grinta di lottare, non la rassegnazione che disarma. Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare.
E perché l’iniziativa divina, comunicataci dal Figlio amato, trovi fondamento scritturale abbiamo riflettuto, in particolare, sulla pagina del Vangelo di Matteo (Mt 12, 15-21), un brano intriso dell’oracolo di Isaia, nel quale abbiamo scoperto come e perché Gesù risvegli in noi la speranza. Il brano isaiano (42,1-7), che l’Evangelista riprende quasi di peso e che trova compimento nel Cristo, è la pericope nella quale il profeta contempla un uomo su cui si poserà lo Spirito e l’Unto annuncerà il diritto, cioè tutto il bene che Dio domanda perché l’uomo cammini nelle Sue vie. La modalità di tale intervento, però, è la cosa che più interessa: il servo, infatti, compie tutto questo senza fare intendere la sua voce e lo fa con una delicatezza incapace di rompere una canna pronta a spezzarsi. Ne risulta che Matteo contempla il Cristo come l’inviato di Dio che si avvicina al sofferente senza “spezzarlo”, si accosta alla persona disperata senza spegnere la fragile luce che resta.
Dinnanzi a questa realtà risulta, forse, audace scorgere la compassione senza limiti di Gesù per gli uomini, così smarriti in questi tempi bui e drammatici?
È troppo fare risuonare le sue parole: “Perché avete paura? Non temete! Io resto accanto a voi!” (cfr Mt 28, 20).
Di certo, il Signore non ci chiama ad essere mediocri, ma ad esagerare nel vivere la sua grazia: abbandonarsi fiduciosi nelle braccia del Padre, navigando il mare della storia con Cristo, per Cristo e in Cristo. Soprattutto quando la barca della nostra esistenza è in mezzo a forti venti è, allora, che bisogna saper percepire nell’intimo quella voce che, come un giorno a Pietro, ora dice a noi: Se tu credi in me, non affonderai!
Il terzo momento di analisi e riflessione si posa sul Vangelo di Giovanni (Gv 5, 5-19). Attraverso il racconto del paralitico guarito alla piscina di Betzatà, ha raccontato plasticamente come Gesù ci libera dalle nostre “paralisi”, anche se datate. Il paralitico, infatti, giaceva in quella situazione da ben 38 anni, lo stesso periodo di tempo in cui Israele aveva errato nel deserto lontano dalla terra della sua felicità. Tante volte anche a noi, come all’infermo, capita di passare accanto a ciò per cui l’essere umano è fatto: amare la vita e lodare Dio. Allora questa guarigione è un “segno” dell’opera di Dio, il quale non sta mai senza agire.
Ogni giorno, ogni istante, in Cristo il Padre dona la vita, salva dall’oscurità e dall’isolamento. Continua a ripetere a noi: Alzati! Risorgi! Il tuo animo vive.
Qualcuno potrebbe pensare che queste parole siano mistificanti, perché la realtà cruda dei venti di morte fa risuonare l’antico adagio: “chi di speranza vive, disperato muore!”. Eppure la Scrittura non nasconde i problemi e i drammi degli uomini duramente provati, anzi li racconta per ricordare con quanta delicatezza il Signore segue da vicino gli ultimi. È il caso della vedova di Sarepta di Sidone (1 Re 17,8-16), alla quale Dio invia Elia in un momento di grande carestia per tutto il Paese. Il profeta giunge stremato a casa della donna e le domanda un po’ di acqua e subito dopo le chiede un pezzo di pane. Ma questo è troppo per lei che comincia a raccontare la propria vita: è vedova, sola e povera e non ha più nulla per nutrire suo figlio. Decide, quindi, di raccogliere della legna e far cuocere l’ultima focaccia fatta con l’unico pugno di farina, preparandosi così alla fine. Elia, allora, le domanda qualcosa in più dell’acqua e del pane. Le chiede di avere fiducia in Dio. Non ha importanza se ella sia una straniera, che non conosce il Dio d’Israele: il Dio di cui Elia testimonia la presenza si fa carico di tutti.
Questa pagina della Bibbia ci obbliga a vivere l’accoglienza come compito verso l’umanità, senza badare al colore della pelle, alla razza, alla nazionalità e alla religione.
Tuttavia, prima di aprire la porta di casa per ospitare profughi e derelitti, dovremmo spalancare il cuore, forgiato dall’abbandono in Dio, nel silenzio e nell’amore.
Occorre chiedere a Dio di donarci occhi di Pasqua, capaci di guardare nella morte fino a vedere la vita; nella colpa fino a vedere il perdono; nell’uomo fino a vedere Dio; nell’io fino a vedere il tu.
L’ultimo passo di questa riflessione non poteva non essere caratterizzato dal “testamento” che Gesù affida ai suoi discepoli (Gv 15, 11-13) e che illumina proprio il momento dell’umiliazione pubblica, della condanna ufficiale, dell’abbandono dei suoi, della sofferenza, della violenza e della paura.
Ebbene in questi momenti, Gesù vive una gioia particolare che diventa sorgente zampillante nel cuore dei suoi discepoli, così la tempesta che si annuncia non potrà distruggerla, perché la Sua gioia inonda nell’intimo il cuore dei suoi amici e sintetizza la conclusione della Sua missione:
“Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia vera” (Gv 15,11).
Donando ciò che sta alla sorgente del suo mandato, Gesù ci rende capaci di donare tutto per divenire giardino del Cristo Risorto nella situazione in cui la vita ci pone.
È nella personale realtà di ognuno di noi che il Signore ci dice ancora una volta: Shalom!
Auguro a tutti di raggiungere l’apice del dono di Gesù attraverso la donazione di se stessi, alla ricerca di una gioia che il mondo considera insensata; un invito, il mio, a fidarci di Dio per essere tra i beati che, pur non avendo visto, hanno creduto. La Resurrezione del Signore è la nostra speranza: Cristo risorge per darci speranza! A Lui gridiamo con gioia il nostro “Alleluja”: ispiri in ciascuno di noi coraggio e saggezza per costruire un futuro aperto all’attesa.
Cha la Pasqua sia vissuta con lo slancio di una vita in sintonia con Dio, condividendo la gioia e la speranza di tutto il genere umano.
Ettore Sentimentale
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