di ANDREA FILLORAMO
La signora E.G mi ha inviato un’email in cui ha scritto: “Non so cosa ne pensa Lei, ma osservare che ancora la Chiesa vieta ai preti di sposarsi e li obblighi a vivere nella clandestinità il loro amore, obbligando anche le donne a nascondersi se amano un prete, è qualcosa di inumano, di intollerabile.
Questa triste considerazione l’ho fatta leggendo su Famiglia Cristiana una lettera di una donna che ha una relazione con un prete e, riferendosi a lui, fra l’altro scrive: “Le sue attenzioni mi hanno “ingannato”, le mie attenzioni hanno forse “ingannato” lui: mi sono trovata catapultata in una realtà pazzesca, sbagliata in origine, ma intensa da vivere. Ma una donna può essere compagna di un prete solo se lui sceglie di rinunciare a quello che è per lei. Tutto il resto è solo un inganno, Una vicenda che ha portato solo dolore”.
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Rispondo dicendo che nel passato ho scritto molto sul celibato ecclesiastico. Basta, infatti, accedere alla Rubrica di IMG Press per rintracciane alcuni miei articoli. Mi sembra, pertanto, di dover aggiungere poco o nulla a quel che ho elaborato e fatto conoscere.
Alla Signora, accennata dalla scrivente, di cui in Famiglia Cristiana, che si sente ingannata da un prete, ma che sostiene d’averlo anche lei ingannato, indirettamente faccio l’invito a rivolgersi soltanto alla sua coscienza e non ad un giornale, che nulla può fare per alleviare quello che, a mio parere, non è assolutamente come viene erroneamente dalla stessa chiamato “dolore”.
Non mi resta, quindi che ribadire che un prete è celibe non perché ha fatto un voto o una promessa, ma perchè è condizionato da una legge, quella del celibato, che, come tale c’è e potrebbe non esserci, tuttavia essa dalla Chiesa Cattolica di rito latino, fino ad oggi, è considerata la “conditio sine qua non” per esercitare il ministero.
Ogni prete oggi, a differenza del passato quando si entrava in seminario da bambini, conosce le varie ragioni addotte a sostegno di tale legge.
Conosce innanzitutto la ragione antica di origine pagana che la sessualità sia in qualche modo peccaminosa e renda chi la pratica temporaneamente impuro, e quindi non idoneo al “servizio dell’altare”, e senza difficoltà, intelligentemente egli la può scartare ritenendola paradossale.
Conosce magari discutendola, l’idea che il celibato sia “un segno del Regno”, giacché in esso, diceva Gesù, “non si prende moglie” (Mt 22,30) e ancora che la condizione di verginità sia superiore alla condizione coniugale. È vero che Gesù, secondo l’evidenza dei testi, era celibe, ma Gesù mai enfatizzava il suo celibato né lo collega alla predicazione del Regno; anche la parola di Mt 19,12 non sembra che contenga un’implicita raccomandazione a “farsi eunuchi per il Regno”, anche volendo accettare l’idea per nulla pacifica che il “farsi eunuchi” e il «restare celibi» fossero equiparabili.
E’ sempre interessante per quei preti che si applicano allo studio e alla lettura, l’osservazione di Bonhoeffer, che, a proposito della castità, scriveva nelle “Lettere a un amico”: “L’essenziale della castità non è la rinuncia al piacere, ma l’orientamento totale della vita in vista di un fine”.
Da qui sicuramente possono nascere molte altre considerazioni che giustificano il valore del celibato non però, come legge ma come scelta libera riservata non a una categoria, a una casta privilegiata, ma di ogni singolo che rinuncia per un fine superiore.
Leggendo e rileggendo nella ricca bibliografia che riguarda l’argomento, non è difficile convincersi sempre di più, che il celibato, come legge imposta al clero, è priva di fondamento evangelico, che tuttavia esiste da secoli nella Chiesa Romana, anche se più volte tale legge è stata ed è sempre osteggiata.
L’ostilità alla legge del celibato non è soltanto di adesso ma anche di molti secoli fa. Già Gregorio VII, vissuto attorno all’anno 1000, non aveva esitato a rivolgersi alle autorità civili per imporre il celibato e molti altri papi hanno continuato nel corso dei secoli su quella linea.
Da accennare, ancora, a S. Bonifacio (VIII secolo) che trovò in Germania una grande depravazione tra vescovi e sacerdoti: che fare? si doveva biasimare il clero o la disciplina impostagli? Dopo la constatazione che la legge del celibato imposta procurava solo corruzione, ribellione e scandali, la decisione più ovvia sarebbe stata quella di abolirla; ma, poiché lo scopo principale e prevalente era di mantenere i «beni» della Chiesa, il nepotismo dei papi, nulla si fece per abolirla.
Si può rammentare ancora Agostino Baumgartner, ne 1562 rappresentante del Duca Alberto di Baviera, che, in un discorso al Concilio di Trento, sottolineò che «la maggioranza delle provincie protestanti della Germania sarebbe rimasta fedele a Roma se Roma sulla questione secondaria del matrimonio dei preti, avesse mostrato accondiscendenza». I Padri Conciliari, tuttavia, furono sordi.
Paolo Sarpi, nello stesso periodo, a tal proposito, disse che lo Spirito Santo era venuto a Trento dentro una valigia preparata a Roma.
La Chiesa Cattolica, quindi, da secoli mantiene questo vincolo, ma che tuttavia le violazioni del celibato sono state nel passato continue anche se punite ora con la scomunica, ora con il carcere, talvolta con pene pecuniarie, con la fustigazione e la bastonatura, con la riduzione in schiavitù delle mogli dei preti, con l’invalidazione di validi matrimoni e la separazione forzata dei coniugi, con la proibizione di prender parte al matrimonio e con la proibizione di seppellire le mogli dei preti con rito ecclesiastico.
Ormai sembra cosa certa: il celibato del clero nel passato è stato imposto per ragioni pratiche: evitare, cioè che i problemi ereditari interferissero nell’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Fu, quindi, uno strumento di potere usato per rinsaldare i vincoli della disciplina ecclesiastica, ma divenne anche un principio d’identità, il segno distintivo di una diversità su cui la Chiesa avrebbe costruito la sua reputazione. È questa probabilmente la ragione per cui la Chiesa, nonostante alcune aperture del Concilio Vaticano II e dello stesso Papa Francesco, non riesce ad affrontare spregiudicatamente il problema.
I preti, quindi, attualmente se vogliono esercitare il ministero, anche se obtorto collo, devono osservare il celibato, ritenendolo, convinti o non convinti, che esso sia il segno di “essere nel mondo ma non essere del mondo (cfr. Gv 15, 18-21).
È chiaro il fatto che molti sono i preti che in questo loro impegno si dimostrano deboli perché forse incapaci di affrontare i problemi che la vita ecclesiastica impone e non solo quelli che scaturiscono dall’obbligo del celibato. In essi c’è la consapevolezza di esercitare una professione e non più una missione difficile e di non essere capaci neppure di mettere in discussione la loro vocazione e questo si riflette sul loro ministero.
Un’altra osservazione: non sono pochi i preti nei quali l’effettiva castità rimane solo un desiderio e un pensiero spesso intollerabile, un’imposta mutilazione, una rinuncia all’amore che è l’unica cosa per cui, in fondo, anche per loro questa vita val la pena che sia vissuta,
Non valgono, quindi, neppure per loro i raffinati ragionamenti teologici volti a dimostrare che è amore anche la rinuncia all’amore, anzi è più amore ancora, come afferma un’enciclica papale.
Un enunciato del genere, del resto – e loro lo sanno- è una negazione del principio di identità e di non contraddizione che nega che A sia uguale ad A : non si può, infatti rinunciare ad avere moglie e figli e poi dire che questa non sia una rinuncia.
“Non si venga – per favore- a dire che la loro non sia una vita facile non è neanche, infatti, una vita da disperati. Si, è vero, rinunciano alla moglie ma non hanno da pensare ai figli, non hanno partite IVA, non lavorano con lo spettro del fallimento, che solitamente non possono essere licenziati, hanno sempre una rete di fedeli che li protegge… È indubbio che ci siano “mestieri” ben più pesanti, e sappiamo che i sacerdoti dei secoli scorsi vivevano in maniera più dura, perché era permesso meno, anche se prima il prestigio sociale della “professione” era maggiore”.
Sappiamo, intanto, che il numero dei preti diminuisce sempre di più e questo particolarmente perché c’è la legge del celibato.
Don Mazzi, in una intervista, diceva: “Ci vuole una rivoluzione. Abolirei la parola prete innanzitutto. Sostituendola con quella di pastore. I tempi sono cambiati. Il prete di una volta era un sant’uomo che organizzava i funerali e le messe. Oggi bisogna avere una visione sociale e politica con la p maiuscola diverse. La priorità dev’essere la testimonianza di fede attraverso gli esempi. E chi dice che un sacerdote sposato non possa darla migliore di uno votato alla castità?”. “Il prete non deve essere un distributore di sacramenti; questi ultimi li possono dare anche i laici. Abolire anche i seminari. I parroci vengono indottrinati come polli. Non siamo impiegati delle Poste. Il prete dev’essere un profeta che deve proporre modi di vivere, far capire quanto sia bella la vita, quanto sia importante viverla bene. Attraverso l’amore, la fede e la bellezza. Abolirei anche il concetto di peccato che è troppo categorico. Usare il verbo “sbagliare” sarebbe un’altra cosa. La gente ha bisogno di perdono, non di sentirsi appellare come peccatrice”. Conclude dicendo: “Ecco perché dico che dobbiamo interrogarci tutti. Per davvero”.