La crisi della Chiesa Valdese e delle Chiese protestanti storiche

di Davide Romano

 

C’è qualcosa di inesorabile nel declino delle chiese protestanti storiche in Europa. La Chiesa Valdese, quella piccola ma tenace comunità che per secoli ha abitato le valli piemontesi sfidando persecuzioni e povertà, oggi affronta un nemico più insidioso dell’Inquisizione: l’indifferenza. I numeri parlano chiaro. La membership effettiva è scesa da circa 30.000 membri negli anni ’70 a meno di 20.000 nel 2023. Un’emorragia silenziosa che lascia vuote le panche di legno nelle austere cappelle.

 

Paul Tillich, quel teologo dal pensiero vertiginoso che tanto ha influenzato il protestantesimo novecentesco, diceva che “il coraggio di essere è il coraggio di affrontare anche il declino, guardandolo in faccia senza illusioni”. Ecco, è proprio questo che manca oggi: il coraggio di guardare in faccia la realtà senza rifugiarsi in consolanti autoinganni.

La verità è che l’età media dei fedeli valdesi supera i 65 anni. Se si entra in un tempio valdese di domenica mattina, si ha l’impressione di assistere a una riunione di pensionati. I giovani? Spariti, evaporati, assorbiti da quella modernità liquida che Bauman ha così brillantemente descritto. Il calo della partecipazione giovanile ha raggiunto il 47% in cinquant’anni. Quasi un dimezzamento generazionale.

 

Non va meglio oltralpe. Le chiese luterane tedesche hanno perso 5,6 milioni di membri in vent’anni. La Chiesa di Svezia, un tempo potenza religiosa nel Paese, è passata dal rappresentare il 95% della popolazione nel 1972 a un modesto 53% nel 2022. Le chiese riformate svizzere perdono l’1,8% dei fedeli ogni anno, con la precisione di un orologio elvetico.

 

“La Chiesa è Chiesa solo quando esiste per gli altri”, ammoniva Dietrich Bonhoeffer prima che i nazisti lo impiccassero a Flossenbürg. Parole profetiche. Perché il paradosso è proprio questo: mentre i fedeli disertano i culti, l’impegno sociale delle chiese protestanti cresce. La sola Chiesa Valdese gestisce circa 122 progetti diaconali. Case per anziani, centri per migranti, mense per poveri. Come se, incapace di salvare anime, si dedicasse a salvare corpi. Un’attività lodevole, certo, ma che rischia di trasformare una chiesa in un’agenzia di servizi sociali.

 

Karl Barth, quel gigante della teologia che ha tentato di riportare Dio al centro della riflessione cristiana dopo le derive liberali, sosteneva che “il protestantesimo ha sempre vissuto nella tensione tra tradizione e innovazione, ma quando questa tensione diventa lacerazione, la sua stessa identità entra in crisi”. Ed è proprio questa lacerazione che vediamo oggi. Il 68% dei membri delle chiese protestanti storiche italiane non sa più definire chiaramente cosa distingua la propria confessione dalle altre. L’identità sfuma, si diluisce, diventa un tiepido brodo ecumenico dove tutto sa di tutto e di niente.

 

La Chiesa Valdese si trova in un paradosso che avrebbe fatto la gioia di Kierkegaard: il 73% dei membri apprezza l’apertura teologica della propria chiesa, ma il 62% lamenta una perdita di specificità confessionale. Vogliono una chiesa aperta, progressista, accogliente, ma poi si ritrovano in una comunità dove non si capisce più cosa significhi essere valdese. Paul Ricoeur avrebbe detto che “l’identità si costruisce nel dialogo con l’alterità, non nella chiusura in sé stessi”, ma questo dialogo deve partire da una chiara consapevolezza di sé. E questa sembra essere la prima vittima del declino.

 

I bilanci soffrono, naturalmente. Il 42% delle chiese locali valdesi è in deficit strutturale. I costi di manutenzione degli edifici storici sono aumentati del 27% negli ultimi cinque anni. Quei templi severi, costruiti con i sacrifici di generazioni di credenti, rischiano di diventare musei, o peggio, di essere venduti per trasformarsi in ristoranti o appartamenti di lusso, come già accade in Nord Europa.

 

Il teologo Harvey Cox sosteneva che “la Chiesa è chiamata ad essere una comunità controcorrente, non un’istituzione che si preoccupa principalmente della propria sopravvivenza”. Ma è difficile essere controcorrente quando si è ridotti a un esiguo manipolo di anziani aggrappati a ricordi e tradizioni. La sopravvivenza diventa allora l’ossessione principale, anche se nessuno lo ammetterà mai apertamente.

 

La crisi valdese appare ancora più drammatica se confrontata con la vitalità delle chiese evangelicali e pentecostali. Mentre le denominazioni storiche perdono l’1,2% dei membri ogni anno, le comunità pentecostali crescono del 2,8%. L’età media dei loro fedeli è di 42 anni, contro i 64 delle chiese storiche. Il 47% dei nuovi membri proviene da background non religioso. Sanno ancora evangelizzare, i pentecostali. Sanno ancora parlare al cuore della gente. Non hanno pudore di Dio.

 

Friedrich-Wilhelm Marquardt, con quell’acume che lo contraddistingueva, osservava che “la Chiesa protestante è nata da una rivoluzione teologica, ma ora teme persino le riforme”. È vero. C’è qualcosa di paradossale in queste Chiese nate dalla Riforma che oggi temono ogni cambiamento. Lutero sarebbe inorridito nel vedere l’immobilismo delle chiese che portano il suo nome.

 

Qualche timido tentativo di rinnovamento c’è stato. I culti online durante la pandemia hanno attirato un pubblico triplo rispetto alla frequenza in presenza. Le comunità che hanno rinnovato la liturgia mostrano un tasso di abbandono inferiore del 23% rispetto alla media. I progetti ecumenici sono aumentati del 58% nell’ultimo decennio. Ma sono palliativi, tentativi disperati di arginare una marea che avanza inesorabile.

 

Le proiezioni sono spietate. Entro il 2050, senza interventi strutturali, il numero di membri attivi potrebbe diminuire di un ulteriore 40%. L’età media supererebbe i 70 anni. Un terzo delle chiese locali dovrebbe chiudere. È lo scenario di un’estinzione lenta ma inesorabile, come quelle specie animali che scompaiono senza che nessuno se ne accorga.

 

Eppure, come diceva Wolfhart Pannenberg, “il cristianesimo deve sempre ripartire dalla sua essenza escatologica, dal suo essere segno di un futuro diverso”. Forse è proprio questa la chiave: smettere di rimpiangere il passato o di temere il futuro, ma diventare segno di un modo diverso di essere nel presente. Non più chiese-museo o chiese-agenzia, ma comunità profetiche che osano vivere diversamente.

 

Paolo Ricca, valdese di nascita e teologo per vocazione, ha scritto che “la Chiesa non muore quando perde membri o edifici, ma quando perde la passione per il Vangelo e per la giustizia che da esso scaturisce”. Parole che suonano come un epitaffio ma potrebbero essere un nuovo inizio.

 

Il futuro dei valdesi e del protestantesimo storico non passerà probabilmente attraverso le forme ecclesiastiche tradizionali. I numeri, freddi e impietosi, dicono che quella strada porta all’estinzione. Ma potrebbe passare attraverso piccole comunità intense, vere “minoranze creative” che non si preoccupano dei numeri ma della qualità della testimonianza. Come ai tempi di Pietro Valdo, quando tutto iniziò con un piccolo gruppo di credenti che sfidarono il potere ecclesiastico in nome di un Vangelo riscoperto.

 

La crisi attuale, vista in questa prospettiva, potrebbe non essere un tramonto ma un’aurora. Una purificazione dolorosa ma necessaria. Del resto, non era questa l’intuizione di Dietrich Bonhoeffer quando parlava di “cristianesimo non religioso”? Una fede liberata dal peso delle istituzioni ecclesiastiche, capace di parlare direttamente al cuore dell’uomo moderno.

 

I Valdesi hanno sempre saputo rinascere dalle proprie ceneri. Lo hanno fatto dopo le persecuzioni medievali, dopo la controriforma, dopo le guerre di religione. Forse lo faranno anche dopo questa crisi silenziosa ma non meno devastante. A una condizione però: che ritrovino quel coraggio teologico che li ha sempre contraddistinti. Perché, come diceva ancora Tillich, “il coraggio di essere è la chiave per l’essere stesso”. E questo vale anche per una Chiesa.