LA GRANDE FUGA. Il lungo addio della Francia all’Africa. Come Parigi ha perso un impero in dieci anni, tra Wagner, yuan cinesi e giovani africani che non parlano più francese

di Davide Romano

C’è qualcosa di malinconico nel modo in cui tramontano gli imperi. Non crollano con il fragore delle bombe o il clangore delle spade, ma si spengono lentamente, come una candela che consuma la sua ultima cera. È quello che sta accadendo alla Francia in Africa, e la storia merita di essere raccontata, se non altro perché segna la fine di un’epoca che ha plasmato un intero continente.

Permettetemi di dipingervi il quadro, cari lettori, con i numeri che più di ogni parola raccontano questa débâcle. Nel 2020, la Francia manteneva ancora 5.000 soldati nel Sahel, quella fascia di territorio che va dall’Atlantico al Mar Rosso, e che per Parigi rappresentava l’ultimo baluardo della sua influenza coloniale. Oggi, nel 2024, ne sono rimasti appena 3.000, e il numero continua a diminuire. Ma non è tanto il numero in sé a colpire, quanto il simbolismo della ritirata.

Vi ricordate quando, nel 2013, François Hollande venne accolto a Timbuctu come un liberatore? I maliani sventolavano il tricolore francese, e le grida di “Vive la France!” riempivano le strade. Dieci anni dopo, quegli stessi maliani hanno cacciato i francesi dal loro paese, sostituendoli con i mercenari del gruppo Wagner, quei soldati di ventura che Putin spedisce in giro per l’Africa come fossero rappresentanti di commercio della sua personale versione di impero.

Ma andiamo con ordine. Nel 2023, il colpo di stato in Niger ha rappresentato la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il presidente Mohamed Bazoum, fedele alleato di Parigi, è stato deposto da una giunta militare che ha immediatamente chiesto ai francesi di fare le valigie. “La vostra presenza è fonte di instabilità”, hanno detto i golpisti. Una frase che suona come uno schiaffo, se si pensa che fino a poco prima il Niger era considerato l’ultimo “amico fidato” della Francia nella regione.

I numeri, ancora una volta, raccontano una storia impietosa. Nel 2023, secondo l’istituto di ricerca African Polling Institute, l’88% dei giovani africani sotto i 30 anni considera la presenza francese nel continente “nociva” o “molto nociva”. Un dato che fa il paio con quello del commercio: gli scambi tra Francia e Africa sono crollati del 48% negli ultimi cinque anni, mentre quelli con la Cina sono aumentati del 123%.

E qui arriviamo al nocciolo della questione. Mentre la Francia si attardava a giocare al gendarme d’Africa, inviando soldati e pretendendo fedeltà, la Cina costruiva porti, strade e ferrovie. Dal 2020 al 2024, Pechino ha investito 189 miliardi di dollari in infrastrutture africane. La Francia? Appena 23 miliardi. È la differenza tra chi guarda al futuro e chi resta ancorato al passato.

Ma c’è di più. La Russia di Putin, che non ha mai brillato per scrupoli morali, ha fiutato l’occasione. Nel 2024, il gruppo Wagner è presente in ben 12 paesi africani, contro i 3 del 2020. I mercenari russi offrono protezione ai regimi locali in cambio di concessioni minerarie e influenza politica. Un baratto che fa storcere il naso agli occidentali, ma che evidentemente funziona, visto che sempre più paesi africani bussano alla porta del Cremlino.

Emmanuel Macron, che non è uno sprovveduto, ha cercato di correre ai ripari. Nel 2022 ha annunciato la “fine della Françafrique”, quel sistema di rapporti clientelari che ha caratterizzato le relazioni franco-africane dal dopoguerra in poi. Ma ormai era troppo tardi. Come disse una volta il vecchio Talleyrand, “in politica, quando si dice che è troppo tardi, significa che è già passato molto tempo da quando era troppo tardi”.

I dati economici sono impietosi. Il franco CFA, la moneta che 14 paesi africani utilizzavano sotto l’egida francese, sta perdendo terreno. Nel 2024, sei paesi hanno già annunciato l’intenzione di abbandonarlo per adottare una nuova valuta comune dell’Africa occidentale. Le riserve auree di questi paesi, un tempo custodite gelosamente nelle casseforti della Banque de France a Parigi, vengono gradualmente rimpatriate.

L’Unione Europea, nel frattempo, assiste impotente a questo spettacolo. Nel 2023, ha stanziato 43 miliardi di euro per un “piano Marshall” africano, ma è una goccia nel mare rispetto ai 300 miliardi investiti dalla Cina nello stesso periodo. E poi, come diceva il mio vecchio professore di storia, “i soldi non comprano l’amore, al massimo affittano un po’ di simpatia”.

La verità è che stiamo assistendo non solo alla fine dell’impero francese in Africa, ma alla fine di un’epoca. Un’epoca in cui l’Occidente poteva permettersi di dettare le regole del gioco. Oggi, il continente africano è un immenso tavolo da poker dove si siedono giocatori vecchi e nuovi: cinesi con le tasche piene di yuan, russi con le loro carte truccate, turchi che cercano di ritagliarsi il loro spazio, indiani che guardano con interesse alle immense risorse del continente.

E la Francia? Resta a guardare, come un vecchio leone che ha perso gli artigli ma non ancora l’orgoglio. Nel 2024, per la prima volta nella storia, il volume degli scambi commerciali tra Africa e Cina ha superato di dieci volte quello con la Francia. È la fine di un’era, dicevamo. Ma forse è anche l’inizio di qualcos’altro. Cosa esattamente, lo scopriremo nei prossimi anni. Per ora, possiamo solo constatare che il sole è definitivamente tramontato sull’impero francese in Africa. E come tutti i tramonti, anche questo ha la sua bellezza. Malinconica, certo, ma pur sempre bellezza.