di ANDREA FILLORAMO
Dopo pochi giorni dall’inizio della guerra tra Russia e Ucraina sono iniziate a trapelare voci sulla salute di Vladimir Putin. Una mano che sembra tremare, il volto gonfio, i report delle intelligence di diversi paesi gli diagnosticano un cancro. Si è parlato anche dell’uso di sosia, proprio come accadde con Saddam Hussein. C’è chi ha parlato di attentati falliti e colpi di Stato per mettere fine al conflitto con l’Ucraina.
Ma cosa c’è effettivamente di vero?
Cerchiamo, per quanto ci è possibile di fare chiarezza, partendo, dalla smentita ufficiale del Cremlino, prendendola per buona avvenuta il giorno dopo la notizia diffusa da The Mirror secondo cui Vladimir Putin sarebbe malato di una forma grave di cancro e quindi, secondo una fonte dell’intelligence russa, i medici avrebbero informato il presidente russo, 69 anni, che gli sarebbero rimasti al massimo 3 anni di vita.
“Putin non è malato” dichiara il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov che in un’intervista all’emittente francese TF1 afferma: “Non credo che le persone sane di mente possano vedere in questa persona i segni di un qualche tipo di malattia o disturbo” sottolineando che il capo del Cremlino appare in pubblico “ogni giorno”.
Prendendo per vero il contenuto di questa informativa di Lavrov, ci chiediamo: “da che cosa nascerebbero, allora, le false notizie sulla malattia di Putin o addirittura sulla sua già avvenuta morte?
Con nessuna difficoltà possiamo affermare che esse non siano null’altro che proiezioni collettive inconsce, che esprimono il desiderio che la guerra in Ucraina finisca e che ciò potrebbe avvenire solo con la fine di chi l’ha scatenata.
Poniamoci qualche altra domanda: la scomparsa di Putin, che prima o dopo, per legge di natura o per altri motivi dovrà necessariamente avvenire, metterà un freno a quello che sembra essere la corsa alle armi, il ricorso alla guerra, alle occupazioni, così come l’abbiamo visto e continuiamo a vedere in Ucraina?
Rispondo: sicuramente no!
Per giustificare, pertanto, il mio dissenso con quanti prevedono che con la fine di Putin si chiuda la triste stagione delle guerre scatenate dalla Russia, faccio ricorso ad un parallelismo, fra quanto è sotto gli occhi di tutti in Ucraina con quanto è avvenuto in Germania nei primi decenni del secolo scorso, quando, in un periodo di rottura rivoluzionaria rispetto all’ordine costituito si è affacciata sull’orizzonte della storia europea e mondiale il Nazionalsocialismo e si è affermata la figura di Hitler con il forte carico di morti, distruzioni, che sono seguiti.
Per quanto concerne la Germania, gli storici si sono posti la domanda: “ la responsabilità di ciò che è avvenuto è di una singola persona, cioè di Hitler o di un popolo, quello tedesco? La risposta è stata che la colpa di quanto era avvenuto era di tutto il pensiero filosofico tedesco che portava verso quella direzione, tant’è che se non ci fosse stato Hitler probabilmente ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe fatto le stesse cose che ha fatto Hitler.
Ciò a partire dal discorso alla nazione tedesca, opera (1808) di J.G. Fichte in cui sono raccolti i testi di una serie di discorsi pronunciati durante l’inverno 1807-08, nell’Accademia di Berlino. Era quello il periodo della sconfitta della Prussia per opera dell’armata di Napoleone, e Fichte esortava la «nazione tedesca» alla rigenerazione degli spiriti e alla rinascita nazionale della Germania oppressa e divisa.
I forti toni di condanna del liberalismo pedagogico («la moralità dell’allievo si ottiene mediante il timore») convergono con il centrale richiamo all’identità tedesca; «la lingua germanica», considerata unica «lingua vivente», è lo strumento per il recupero dell’identità originaria della «nazione» e per l’organizzazione etico-politica della sua rinnovata forma di unità.
Da rammentare, inoltre, il Mein Kampf (La mia battaglia) che è un saggio autobiografico, pubblicato nel 1925, nel quale Adolf Hitler espose il suo pensiero politico e delineò il programma del Partito nazista.
Sembra che il parallelismo accennato sia un paradosso, pensando che l’obiettivo che Putin ha affermato di porsi, occupando l’Ucrainia è stato quello di denazzistificarla ma la filosofia che determina le scelte attuali della Russia, sono molto più antiche di quello tedesco e hanno un fondamento religioso, incarnato dal Patriarca ortodosso di Mosca di ieri e di oggi.
Basta rammentare la formula della “Terza Roma”, coniata dal monaco Filofej di Pskov nel XVI secolo, dove l’idea che i russi fossero il “popolo eletto” destinato a combattere l’Anticristo forgiò una mentalità con evidenti ripercussioni politiche e ideologiche.
Già durante il regno di Ivan IV (detto il Terribile), incoronato nel 1547 dal metropolita Makarij con il titolo di “gran principe e zar di tutta la Russia’”, in un rito di definitiva sacralizzazione della monarchia russa, vennero i nemici contro cui Mosca doveva combattere: un Anticristo esterno, che poteva arrivare dalle terre oltre la Moscova; e un Anticristo interno, che veniva identificato nella resistenza alla volontà del potere costituito, soprattutto nelle fasi di instabilità e disordine.
Equiparando ogni insubordinazione al tentativo di indebolire lo Stato nel suo ruolo di “freno” al ritorno dell’Anticristo, veniva forgiato in chiave escatologica un certo tipo di regime e di esercizio del potere che avrebbe segnato a lungo la cultura politica della Russia.
In particolare nel rapporto tra Stato e popolo.
Nel XVIII e XIX secolo, questa interpretazione venne collegata al dibattito tra occidentalisti e slavofili, divenendo così una dottrina laica di politica estera a difesa dell’unicità storico-culturale della Russia.
Manteneva comunque anche una dimensione messianica, per cui Mosca restava la protettrice del mondo e lo “scudo” che aveva salvato l’Europa dall’orda mongola.
Successivamente si affermò sempre di più il principio che è lo Stato che protegge contro il caos, e nella Russia post sovietica il concetto, molto caro ai “conservatori radicali”, ha finito per incarnare l’idea stessa di difesa dalla minaccia esterna.
Mosca è vista cioè come la forza che resiste a un nemico fisico e metafisico inviato dall’Anticristo. Un tempo erano i Tatari, poi i Turchi, Napoleone o Hitler.
Più di recente i liberali, gli agenti americani, i movimenti Lgbt, la Nato, l’Unione europea, il liberalismo, la globalizzazione, il postmodernismo.
Che ci resta, quindi, da fare per far cessare la guerra?
Osservo soltanto: Il consenso strategico che, in una determinata epoca, ispira e indirizza la politica estera di un paese discende da una più ampia e diffusa cultura strategica che, a sua volta, affonda le proprie radici nelle esperienze storiche, culturali, politiche e sociali di una collettività stanziata su un determinato territorio.
Per comprendere a fondo la cultura strategica russa, con cui il Cremlino giustifica alla popolazione determinate scelte di politica estera, fra cui la guerra in Ucrainia, occorre quindi analizzare per prima cosa quelle persistenti problematiche – e annessi timori – geografiche, socioeconomiche, identitarie e culturali che la collettività russa ha dovuto affrontare nei secoli e in questi ultimi anni.
Ciò non per giustificare un’indiscutibile occupazione di una nazione libera e indipendente ma per cercare in tutti i modi “ cedendo” e “concedendo” e invitando a “ cedere e concedere” al di là della guerra che rischia, se si sbagliano le strategie che non possono essere quelle delle armi, di protrarsi per un tempo sicuramente lungo, non umiliando quello che non è stato mai un nostro nemico ma temo che lo possa diventare.