di ANDREA FILLORAMO
“Qui prego, col dolore nel cuore, perché mai più vi siano tragedie come questa, perché l’umanità non dimentichi e sappia vincere con il bene il male /…/. La memoria non va annacquata né dimenticata; la memoria è fonte di pace e di futuro”.
Questa è la frase scritta da Papa Francesco sul Libro d’Onore al Memoriale del genocidio armeno al termine della sua visita (26 giugno 2016) al luogo dedicato ai massacri.
È indubbio: il Papa, sul “genocidio degli armeni”, termine con cui si indicano le deportazioni ed eliminazioni di armeni perpetrate dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa 1,5 milioni di morti, ha fatto bene a dire la verità, a chiamare le cose con il loro nome senza estenuate distinzioni storiografiche. Interrogarsi sui fatti del passato, è un modo per farsi trovare meglio attrezzati nella comprensione del presente.
Ciò dovrebbe valere anche per la stessa Chiesa Cattolica, che deve riconoscere i suoi errori, i suoi peccati, la sua presunzione, la crudeltà felle sue decisioni, la sua storia fatta sì di santi e di martiri per la fede, ma anche di soprusi, divieti, stragi, censure, torture inenarrabili, condanne, scomuniche, roghi, che sarebbe veramente difficile riportarli tutti in una breve nota.
A dire il vero già Giovanni Paolo Secondo nel 2000 aveva chiesto scusa degli errori fatti dai suoi predecessori, ma quello del papa polacco, anche se è stato il più grande “mea culpa”, forse l’unico di un Papa, non ha messo, però, in discussione allora e nei lunghi anni del suo pontificato, la dottrina che sta alla base degli stessi errori.
Tale dottrina, a mio parere, scaturisce da una “strategia teologica” – con la quale la Chiesa e i suoi teologi, fanno credere, insegnano e predicano che la Chiesa cattolica sia una realtà divina, una società perfetta, intoccabile e, pertanto, i suoi peccati e i suoi errori, le persecuzioni e le crudeltà da essa operate lungo l’arco dei secoli e gli stessi abusi sessuali del clero, che sono venuti fuori negli ultimi tempi, siano da considerare solo microscopici ostacoli collaterali che si incontrano lungo la “maestosa strada che conduce al Regno di Dio” ed è bene, quindi che non se ne parli.
Si coltiva, così, l’illusione di poter in qualche modo “dimenticare”, di tenere sotto controllo le spaventose sensazioni ad essi correlate, Ma così facendo, non si pensa che si sperimenta la situazione paradossale per cui più si cerca di dimenticare più finisce per ricordare sempre di più. Scriveva Michel de Montaigne: “Niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla”.
Per la bimillenaria istituzione della Chiesa Cattolica, è stato sempre così, ad iniziare, dall’Editto di Milano dell’imperatore Costantino del 313 d.C. e dell’Editto di Tessalonica del 380 d.C.
Proprio allora, molti pagani, infatti, rifiutarono di convertirsi alla nuova Religione e la Chiesa in virtù di tali Editti, li ha torturati ed uccisi, inaugurando, così, il suo modo di procedere forzoso di conversione, che è durato per molti secoli.
Con quegli Editti finiva il tempo di Tertulliano che presentava la comunità cristiana come una comunità vasta e vivace con differenti correnti di pensiero, dove la presenza cristiana era diffusa capillarmente (cfr. Apol. 1,7; Ad Scapulam 2,10) con missionari itineranti dei quali nella letteratura del primo e del secondo secolo si parlava molto della generosità, ospitalità dei singoli e delle comunità. I missionari itineranti non obbligavano e non costringevano ad accettare il cristianesimo né minacciavano di sanzioni.
il cristianesimo, pertanto, a contatto con il potere, si trasformò in una religione che ereditava dal paganesimo romano il suo “modus facendi et operandi”, cioè il suo modo di fare e di operare, che era quello dell’assenso pieno ed indiscusso per non incorrere in una pena che minacciava la stessa vita.
Tale mentalità o cultura fu sicuramente profonda e si è accompagnata sempre ad ambiguità e contraddizioni concernenti la fede che la Chiesa affermava di professare, che teneva, però, sganciata dalla carità intesa come accoglienza, disponibilità verso il prossimo, volontà di mettersi al servizio degli altri, dei poveri, dei bisognosi, in nome di un senso di giustizia superiore, di un anelito a ciò che è giusto, buono, bello.
Diciamolo con estrema chiarezza: questa mentalità accompagnata da tali ambiguità e contraddizioni, nella Chiesa, sono durate per quasi due millenni, fino ai nostri giorni, fino agli ultimi Papi e fino a Papa Francesco, che cerca di scardinare, In tutte le maniere, la teologia del “castigo”, della “scomunica” della “separazione” delle “mura” e la sostituisce con quella della “misericordia”, dei “ponti”, che è innanzitutto basata sulla verità e sulla tolleranza.
Papa Bergoglio sa bene come il passato prema sul presente e come il compito, che si è prefisso di compiere, comporti rilevanti problemi teorici e pratici – vere e proprie sfide alla prassi secolare della Chiesa, che molti all’interno e all’esterno dei “palazzi” pontifici, vorrebbero e lottano con tutte le forze per potere mantenere o fare rinascere.
Sa ancora come sia necessario ripensare il rapporto tra rivelazione e morale, evidenziare l’intimo intreccio di misericordia, giustizia e verità.
In modo particolare credo che sia necessario leggere con misericordia i “segni dei tempi”, di attingere, cioè, il senso della Chiesa contemporanea, di aprire un corso nuovo, cambiare metodo, lasciando alle spalle gran parte dell’impianto ereditato da lontano per ciò che riguarda i rapporti con l’umanità. Il doppio vincolo della fedeltà a Dio e all’uomo segnala un doppio percorso da intersecare. Dio non ha parlato solo nei tempi antichi e in Gesù Cristo ma parla anche oggi. La sua voce è legata ai «segni dei tempi», cioè agli eventi che ci sconcertano e in cui si avverte qualcosa che resiste e spinge oltre.