di ANDREA FILLORAMO
Sicuramente l’espressione poetica può svolgere un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comunicazione. In queste giornate forse le più buie del nuovo Millennio, in cui un virus si è infiltrato nella nostra vita, portando sofferenza e morte, infatti, ritengo che dalla poesia, si possa trarre ispirazione e, quindi, si possa infondere nell’animo pensieri e sentimenti concernenti l’esistenza, la sua precarietà, le sue seduzioni, le sue asperità.
In questi giorni – lo sappiamo tutti – si stanno limitando le occasioni per trovarsi e per sentirsi parte di una comunità e tendono a prevalere l’idea di individualità ed un più o meno consapevole senso di solitudine.
La psicologia contemporanea distingue, però, la “solitudine” dall’ “isolamento”. Possiamo, infatti, sentirci completamente isolati – ma continuare a coltivare il dialogo con noi stessi e con gli altri.
Ciò può accadere, ad esempio, quando condividiamo, pensieri, sentimenti, emozioni, riflessioni, paure, attraverso una poesia, che è quella, che se l’autore la fa leggere agli altri, dà a loro la possibilità di entrare più facilmente nei meandri del cuore umano, specialmente se vengono trattati i temi della perdita della socialità, della solitudine, del rischio reale e concreto di uno stravolgimento di gerarchie e valori.
Insomma, poesia e vita al tempo della pandemia, sono convinto che possano concorrere a fare riflettere, senz’altro molto di più delle trasmissioni televisive che ci tengono prigionieri dalla mattina alla sera.
Nell’accostarci alla ricorrenza, quindi, della Commemorazione dei Defunti, intensamente sentita da tutti, che quest’anno assume, oltretutto un significato particolare, dato il numero molto alto dei morti, in conseguenza della pandemia, molti per paura del contagio, per scaramanzia o per altri motivi, si esimono dal recarsi al Cimitero, dal portare fiori per abbellire i loculi ove giacciono i propri defunti, pulire e lucidare marmi ed ottoni, lustrare le immagini. Questi atteggiamenti di pensiero, questi momenti di gestualità collettiva, espressioni di fede atavica, rappresentano l’aspetto più importante del culto dei morti.
Fra queste persone, ci sono anch’io, che, per salvaguardare la mia salute, trascorrerò il giorno dei defunti al pari dei giorni precedenti. Rivolgerò un pensiero, però, a chi ci ha preceduto nel nostro percorso umano e parteciperò, in modo personale alla Commemorazione dei defunti, condividendo con i lettori di IMGPRESS, senza alcuna velleità poetica, alcuni miei forse mediocri ma sentiti e quindi sinceri versi, che allego.
Spero che essi possano trasmettere alcune sensazioni, traducibili in concetti, necessari per affrontare il trascorrere del tempo, questo brutto tempo, che è il vero tiranno della nostra vita e sui quali, con molta non finta umiltà- invito a riflettere.
Ciò significa anche e particolarmente riflettere sulla nostra precarietà e sul superamento di ogni difficoltà per guardare non tanto al nostro futuro che sappiamo è chiuso dentro i ristretti confini di una pandemia che fino ad oggi non riusciamo a sconfiggere, ma a quello dei nostri figli e dei nostri nipoti.
NEL GIORNO DEI MORTI
In questo triste giorno dei defunti
conto i miei anni, sono proprio tanti!
sono foglie cadute giù dal ramo
ove non giunge il sole e non c’è luce.
Drizzo l’orecchio attento al gufo nero
che bubola là appeso alla grondaia,
annuncia che verrà presto la notte,
la buia notte che paura arreca.
Sospeso tra i due tempi del destino,
fra il giorno e notte il gufo mi rammenta
che il futuro per me non è sicuro
incerto è l’oggi e incertoè anche il domani.
Scruto invano le stelle e il firmamento,
cancello il calendario degli impegni,
lascio le attese come s’abbandona
la donna se si scopre che non ti ama
come si getta un farmaco da banco
quando il dolore più non ti tormenta.
Sfugge il passato, tacciano i ricordi
vuota è la mente e spenta è la ragione.
Rimuovo incerto tutti quei pensieri
che diventano vani a chi dispera.
Non nutro desideri di denaro
basta quel tanto quanto ne possiedo.
Se mi guardo allo specchio riconosco
quel che è fugace e quel ch’è eterno e dura:
nel viso si dipinge della vita
il suo scorrere incerto e il finito.
Scorgo del volto solchi assai profondi
distratte smorfie e borse sotto gli occhi
Vedo le spalle divenute curve
il passo non più rapido ma lento.
Osservo che la sorte mi accomuna
a chi è triste, pensieroso, assorto,
irato, fosco, a volte smemorato
cupo, silenzioso e annoiato.
Un morbo che io temo e fa paura,
che cancella tutt’intero il tuo passato
dal quale prego Iddio che mi preservi,
è il maledetto elzheimer che non perdona.
Mi sovviene ad un tratto all’improvviso
Il ricordo del caro mio figliolo
reciso dalla falce maledetta
come un bel fiore nell’età più bella.
Tanto è il dolore che mi fredda il cuore,
lo rende come il marmo o pietra dura
come un tronco caduto nel sentiero
abbattuto dal vento e da bufera.
Stanotte l’ho sognato in paradiso,
correva con lo skate a lui donato
nel giorno tre del mese di novembre
era il giorno del suo compleanno.
Volteggiava nell’aria molto tersa
qual nuvola portata su dal vento
si librava al di sopra d’ ogni cosa
volteggiando nel cielo all’infinito.
In alto poi attento s’innalzava
qual piuma ch’è riposta sulla mano
che fugge al primo soffio del respiro
mentre tu lentamente la rinchiudi.
Andava al trono riservato a Dio
che l’investiva con una forte luce
che vince il buio che nel mondo regna
passandomi d’accanto sorrideva.
Somigliava a un piccolo lattante
che sta tranquillo al seno della mamma:
era più bello di quand’era in vita.
I suoi occhi sembravano dipinti.
Erano fonti in cui si specchia il cielo
un cielo terso come all’orizzonte
quando si piega al mare che l’accoglie
generoso fra le onde e fra gli scogli.
S’avvicinò a me; lo guardai stupido,
m’abbracciò con lo sguardo e poi mi disse
come diceva sempre da bambino:
“vieni con me, papà…stammi vicino”.