La sacralità del prete: molte volte, con chiaro riferimento ai preti, ho utilizzato il verbo “desacralizzare” e il sostantivo derivato “desacralizzazione”, senza spiegarne il significato, ma facendolo soltanto intuire.
di ANDREA FILLORAMO
Rispondo così come posso e in poche righe al quesito di una gent.ma Signora che mi chiede tramite un’email cosa intendo io, nei miei articoli in cui scrivo dei preti, con i termini “desacralizzare“ e “desacralizzazione”.
Si è vero: molte volte, con chiaro riferimento ai preti, ho utilizzato il verbo “desacralizzare” e il sostantivo derivato “desacralizzazione”, senza spiegarne il significato, ma facendolo soltanto intuire. Del resto non potevo comportarmi diversamente: il concetto o meglio i concetti, contenuti in quei termini applicati al prete cattolico, sono talmente ampi da abbracciare senza stravolgere buona parte della teologia cattolica, che su questo tema volentieri preferisce tacere, anche in un tempo in cui la secolarizzazione amplifica sempre più i suoi confini ma tollera ancora che si parli del sacro tempio, dei sacri arredi e di una vasta gamma di oggetti di vario genere e tipo.
Tutti, infatti, nel linguaggio comune parliamo di icone sacre, di statue, croci, rosari, pissidi, calici, vesti, ornamenti e molto altro, cioè di oggetti riservati in modo esclusivo al culto e per questo benedetti, resi sacri, appartenenti cioè ad un mondo che non è di questo mondo.
Anche il prete perché prete, in virtù, cioè, di un sacramento, che è l’Ordine anch’esso Sacro, viene strappato alla realtà mondana e viene riservato alla sacralità, nell’affermazione che gli rimbomba in testa fin dai primi tempi della sua formazione, che egli è nel mondo ma non appartiene al mondo.
Proprio cosi! Per renderlo sacro la Chiesa per lungo tempo e con molta fatica, data la resistenza della natura umana anzi troppo umana, l’ha “allevato” nei seminari, l’ha coperto con una talare nera come la notte, l’ha segregato alla famiglia, non gli ha permesso di avere una vita sociale, gli ha messo in testa che i peccati più gravi sono quelli sessuali, specialmente se fatti con le donne, più tollerabili se compiuti con i maschi, ma mai gli ha insegnato che farlo con i bambini non solo è grave peccato ma che è anche reato previsto dal Codice penale.
In questa diatriba e in queste contraddizioni, che ogni prete ha vissuto e continua a vivere sulla propria pelle, particolarmente in un tempo in cui l’antropologia si fa strada anche nelle fila del clero, si consuma buona parte della vita di chi ritiene, anche nei momenti in cui nota che la sua “ carne è debole” che, in virtù della sua ordinazione, Dio intervenga per salvarlo dal naufragio al quale sono destinati quanti si sentono lontani da Lui .
Cerchiamo di essere ancor più chiari: nel Nuovo Testamento, non si parla mai di sacralità del prete né quello che chiamiamo prete è indicato come un sacerdote.
Quello che può essere assimilato al prete è il presbitero, ossia, “un anziano” della comunità al quale non viene dato mai un ruolo “sacrale”. Solo tra il II e il III secolo che si comincia a parlare di sacerdote. Proprio allora il “pastore” della comunità si è trasformato da “presbitero” in “sacerdote”, da “anziano” a “uomo sacro”. A partire da allora egli è stato assimilato a Cristo, al quale, secondo il Nuovo Testamento appartiene esclusivamente il termine di Sacro di sacerdote, perché unico mediatore fra Dio e gli uomini. La lettera agli Ebrei è chiarissima, su questo punto.
Nell’elenco dei carismi e dei ministeri san Paolo propone la sua riflessione sulla Chiesa: “Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?” (1Cor 12,28-30)
E poco prima, in un altro elenco, lo stesso Paolo ancora aveva detto: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue”. (1Cor 12,4-10)
Riporto dalla Rete: “Non esiste, nelle comunità paoline, alcun carisma di sacerdozio; non esiste alcun uomo sacro, poiché semplicemente non ve n’è bisogno! il sacerdote è venuto catalizzando su di sé tutti i carismi che dovevano, secondo il pensiero di Paolo, essere distribuiti nella comunione e nella comunità: quello che per Paolo era “a ciascuno… una manifestazione particolare… per il bene di tutti”, nella tradizione cattolica è diventato: “solo in alcuni… tutte le manifestazioni… per il bene incontestabile degli altri”. Da qui, il cosiddetto “sacerdozio ministeriale” (che significa: “sacralità in forma di servizio”) è diventato il luogo in cui si trovano raccolti tutti i carismi (d’altronde, se l’uomo del sacro è un “altro Cristo”, come potrebbe non darsi questa sintesi assoluta?): il prete è da considerarsi apostolo, pastore, maestro, profeta; guarisce, consola, assiste, governa…. Il prete/sacerdote fa tutto, deve fare tutto. Come si potrebbe chiedere di meno a chi è investito di tale potere da essere colui che agisce “in persona Christi”?
Come può, l’uomo sacro fare tutto questo? Come può vivere in modo tanto “sovrumano”? E’, quindi, eccessivo il carico del “sacro” di cui è rivestito non solo il ruolo del prete ma anche proprio la sua figura dottrinale. Come fa, quindi a recuperare la “secolarità” che gli è propria, e che secoli di incrostazioni hanno reso impalpabile?
Se rimane vero che non è superabile, in un solo gesto, fosse anche profetico, tutta questa coltre sacrale depositatasi per secoli, non voglio smettere di domandarmi come salvare o recuperare l’umanità propria, anche del prete, il senso vivo della quotidianità di cui i Vangeli sono pervasi?
L’avanzare dei tempi moderni, quindi il post-moderno non ha modificato di molto l’attesa che la gente nutre nei confronti del prete: ci si aspetta un uomo vero, autentico, delicato e rigoroso nel suo appartenere a Dio. Non può che essere così! Imprescindibili, dunque, si riconfermano la sua capacità di restare in ascolto della vita e della vocazione propria e altrui; l’abilità di ritrovare sempre il proprio centro nella frequentazione della propria interiorità; il gusto e la disponibilità di rimanere “uno” tra gli altri, umile, sentendo di appartenere, condividere e coinvolgersi in una storia che avverte comune. Il tutto sembra aver la sua radice profonda nella relazione con il Signore. Per noi… tanto più per lui.