«È con grande emozione e cordoglio che Taobuk porge l’estremo omaggio allo scrittore israeliano, nella consapevolezza del significato che assume avere avuto l’onore di ospitarlo in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, coronata dal conferimento del Premio all’eccellenza letteraria», sottolinea Antonella Ferrara, presidente del festival letterario internazionale di Taormina…
Il 24 giugno di quest’anno, in una cerimonia che resterà a lungo impresa nella memoria dei suoi tantissimi lettori accorsi da tutta la penisola, Amos Oz riceveva a Taormina il Taobuk Award for Literary Excellence, momento clou del festival letterario internazionale ideato e diretto da Antonella Ferrara: un autentico evento da ricordare anche e soprattutto per il monito di pace e tolleranza che il grande scrittore israeliano ha lanciato con ardente militanza non disgiunta da sapiente ironia. «All’indomani della sua scomparsa – sottolinea Antonella Ferrara – quel messaggio suona, se possibile, ancora più forte e illuminante. È perciò con grande emozione e cordoglio che Taobuk porge l’estremo omaggio ad Amos Oz, nella consapevolezza del significato che assume oggi avere avuto l’onore di ospitarlo in una delle sue ultime apparizioni pubbliche: una lectio magistralis e un incontro con il pubblico, coronati dalla premiazione e da cui sono emersi contenuti di altissima levatura civile, com’era nella statura etica di questa straordinaria personalità, non solo voce critica di Israele e figura di riferimento per la cultura ebraica, ma un maître à penser a tutto tondo, che ha saputo esprimersi attraverso i romanzi, come nei saggi e negli articoli giornalistici, dopo avere anticipato il suo intervento con il testo inedito, pubblicato in esclusiva su un importante quotidiano».
Di notevole rilievo e interesse appaiono le considerazioni di Oz che hanno arricchito la sua densa conversazione, nel corso della quale l’autore di “Una storia d’amore e di tenebra”, Michael mio”, “Giuda” ha toccato fondamentali nodi di riflessione, a cominciare dal concept su cui ruotava l’ottava edizione di Taobuk, dedicata al tema “rivoluzioni”. «La parola rivoluzione – ammoniva Oz nella sua dissertazione – è vittima dell’ inflazione, contrassegnata da significati troppo eterogenei. Chiamiamo rivoluzione una guerra che miete centinaia di migliaia di vittime, definiamo rivoluzionario un programma televisivo se ci piace e designiamo rivoluzionaria una nuova moda. Così, indifferentemente. Sono assai più severo da questo punto di vista e traccio una linea di demarcazione molto netta nel definire il significato del termine. Sono per quelle rivoluzioni che non presuppongono versamento di sangue, soluzione che deve essere l’ultima spiaggia, invece da duecento anni a questa parte la maggior parte delle rivoluzioni hanno orribilmente prodotto troppi morti. Se fossi un medico prima di amputare un arto, verificherei se tutti gli altri trattamenti e terapie falliscono. Mi rendo ben conto di quanto adescante sia la rivoluzione, di come ecciti gli animi e affascini le persone, ma, viste le conseguenze, bisogna saper stare un passo indietro. Perciò pur essendo un militante che ha fama di essere intransigente, preferisco definirmi un evoluzionista non un rivoluzionario. E da più di sessant’anni, praticamente tutta la vita, insieme ad altri che la pensano come me, cerco una soluzione pacifica di compromesso al doloroso conflitto che affligge israeliani e palestinesi. Perché il rispetto della vita umana è una priorità irrinunciabile, questo è il mio credo».
Uomo di pace e tolleranza, anche a Taobuk lo scrittore ha manifestato il problematico rapporto con la fede: «Non credo in Dio, ma ne ho paura. Sono nato a Gerusalemme, ma ne so quanto voi di Dio, non so se si tratti di un lui o una lei, ma secondo me non è un grande amico dell’ umanità. Non so darmi altra risposta se penso a quanto la nostra vita sia piena di dolore, sofferenza, ingiustizie, orrore. Allora mi è molto difficile pensare alla figura di questo Dio buono: dite quello che volete, ma mi spaventa e terrorizza da morire».
Ed ecco che il pensatore svela il narratore, che da bambino sognava di diventare un libro, come scrive in “Una storia d’amore e di tenebra”: «Sono nato nel lontano 1939 e mi rendevo conto già da piccolo, tra gli orrori della guerra, che intorno a me morivano non solo gli adulti ma anche i bambini. E allora ho pensato che fosse decisamente una cosa più sicura se avessi avuto la possibilità di crescere diventando un libro: è vero pure che i libri si possono distruggere così come si può privare gli esseri umani della vita, però può darsi magari che una coppia superstite sopravviva in una remota libreria a Reykjavik, San Paolo, Tokyo. Ma adesso che sono cresciuto sono felicissimo di non essere diventato un libro e trovo più piacere nel vivere da essere umano, è molto più eccitante. Certo vuol dire anche provare dolore e scontento, però perlomeno non ho passato il novanta per cento della mia vita dimenticato su uno scaffale coperto di polvere! Poi vi voglio confidare un segreto e per quale ragione mi considero un narratore: quando avevo cinque anni ero gracile e quindi piuttosto lento, non sapevo cantare, non sapevo danzare, non ero proprio il massimo negli sport. Dall’ asilo in poi, per tutta la durata della scuola, l’unico modo che avevo per attirare le ragazze era raccontare loro delle storie. Ho capito presto che narrare è l’azione umana più antica del mondo, più antica della letteratura, dei romanzi lunghi e brevi, della tradizione orale, della ricostruzione dei fatti storici. Già al tempo delle caverne i primitivi usavano elaborare racconti, immaginate l’atmosfera, le grotte di notte, illuminate solo dalla luce del fuoco, immaginate questi esseri, seduti intorno ai legni ardenti, mettere a disposizione degli altri la propria fantasia e raccontare esagerando la realtà, o elaborando i loro sogni. Se mi chiedete a quando risale la narrazione, secondo me è assai più antica addirittura della sessualità umana, che si differenzia da quella animale perché coinvolge e riguarda sempre una storia, se non addirittura una fiaba, nel senso che spesso noi attiriamo il nostro partner con racconti che affascinano la sua testa. E quindi il narrare è addirittura più antico di quanto non lo sia la sessualità nell’uomo».
Come si è anticipato, c’è una compenetrazione tra i romanzi di Oz e i suoi saggi. A fare discutere di più è stato sicuramente “Cari fanatici”, in cui si analizza un fenomeno che oggi sembra investire tanti piani della nostra esistenza, in una società polarizzata, in cui le opinioni contrapposte non si confrontano ma si scontrano in un clima di intolleranza. «Il fanatismo – rimarcava infine Oz – è davvero la cosa peggiore che ci ha portato il nostro tempo, non si colloca semplicemente fra i gruppi di fanatici islamici, ma c’è un gene del fanatismo presente in ogni singolo essere umano e dobbiamo prenderne coscienza, sia che si tratti di religione, sia che si tratti di ideologia o di qualsiasi altra tematica, dal femminismo al nazionalismo all’arianesimo, ivi compreso tutto quello che riguarda i risvolti sessuali della nostra vita. Sono assolutamente sicuro che Stalin e Hitler, nonostante non penso volessero farci questo regalo, hanno suscitato il nostro disgusto per i loro metodi, una reazione positiva che per cinquanta, sessant’anni ci ha liberati dal coltivare sentimenti di fanatismo, razzismo, violenza. Questa sorta di trauma “pacifico” è stata la conseguenza di quello che loro hanno perpetrato, ma tale effetto è arrivato ad una data di scadenza e le nuove generazioni ne sono immuni, poiché non hanno vissuto gli orrori del fanatismo di nazisti o bolscevichi. I giovani stanno quindi crescendo con un’inclinazione al fanatismo che si estende a parecchie problematiche e tendono a paragonare le responsabilità di un genocidio a quelle di coloro che si nutrono di carne, fino a contestarli con manifestazioni abbastanza violente. Ricordiamoci sempre che c’è questo gene silente dentro di noi, questo piccolo fanatico dormiente. Se mi fosse data la possibilità, creerei un antidoto, una pastiglietta del buonumore, giacché non ho mai visto un fanatico rendersi conto di cosa sia sentirsi allegro e ben disposto verso gli altri. Allora potrei accettare, se non il premio Nobel per la Letteratura, almeno quello per la Medicina, dal momento che questa pastiglietta sarebbe un grande servizio reso all’umanità».