LA STORIA TRAGICOMICA DELL’UNITA’ D’ITALIA. GARIBALDI RIDICOLIZZATO E IRRISO

Ho letto diversi libri sul Risorgimento, sull’unità d’Italia, su Garibaldi, ma uno come quello che ha scritto Riccardo Pazzaglia, ancora no. Mi riferisco a «Garibaldi ha dormito qui. Storia tragicomica dell’unità d’Italia», Arnoldo Mondadori Editore (1995).

 

E’ un libro intriso di sarcasmo, di ironia, di irriverenza, di critica beffarda nei confronti dei tanti personaggi, protagonisti della storia risorgimentale. Pazzaglia con un humor partenopeo-britannico, nel testo non si esime dal ridicolizzare i cosiddetti padri della patria a partire da Garibaldi, Vittorio Emanuele, Mazzini, Cavour.

Consulto internet e apprendo che Pazzaglia viene indicato come uno dei più noti scrittori umoristi italiani. Leggo che  «la provocazione surreale, paradossale del suo linguaggio viene da decenni di esperienze radiofoniche e televisive – come conduttore, autore e regista  – di testi di teatro, di cinema come regista e sceneggiatore, di corsivi satirici su quotidiani e riviste. Sul grande quotidiano del Sud, Il Mattino, la sua caustica rubrica “Specchio ustorio” è stata seguita per oltre venticinque anni con immutato interesse dai lettori»

Il giornalista che è scomparso nel 2006, nel libro si presenta come un «’inviato speciale nel passato’ di un giornale inesistente». Racconta la storia facendosi «aiutare» da personaggi più o meno reali, entra nei particolari, nell’intimità dei protagonisti, in particolare in quella di Garibaldi, che hanno fatto l’unificazione del Paese.

Attenzione il testo di Pazzaglia nonostante abbia queste caratteristiche, è un libro che ha, tutte le qualità per essere un testo ben documentato, e pertanto, racconta la verità storica. Anche se il testo non ha note che rimandano alle fonte e non presenta nessuna bibliografia, dalla lettura si desume che l’autore abbia letto e consultato diversi libri. Anzi vorrei aggiungere, dopo aver letto queste pagine così dissacranti nei confronti dei cosiddetti eroi risorgimentali, dei quattro padri della patria, non si comprende come di fronte a personalità così mediocri si sia potuto con tanta leggerezza dedicargli vie, piazze, statue, busti e vie di seguito.

Certo il giornalista campano sostiene alcune tesi alquanto bizzarre, per esempio che la spedizione dei Mille è la conseguenza di una burrascosa separazione coniugale. Inoltre scopre, che è fatale al Regno delle Due Sicilie, ancora un matrimonio: «quello (stavolta purtroppo riuscito) fra una principessa bigotta di casa Savoia e Ferdinando II, da cui nasce Francesco, un malconcio principe che in famiglia chiamarono lasagna». Naturalmente non condivido per niente la descrizione che offre il giornalista della regina Maria Cristina, definendola sostanzialmente una bigotta, che «non ha fatto che vivere tra litanie, tridui, novene, esercizi spirituali, penitenze, rosari […]». Probabilmente Pazzaglia, preso dal solito humor irriverente, in questo caso si allinea alla maggioranza di tanti pseudo storici. Non discuto la devozione  di Maria Cristina, peraltro per la Chiesa è beata e speriamo presto santa, ma trovo inaccettabile il termine bigotta, per una ragazza che in soli tre anni ha “rivoluzionato” il Regno.

Per una corretta descrizione della giovane regina sabauda, rimando alla lettura delle mie recensioni (come sempre anomale) al libro di Mario Fadda e Ilaria Muggianu Scano, Maria Cristina di Savoia. Figlia del Regno di sardegna, regina delle Due Sicilie, Arkadia editore (2012) .

Comunque sia, Pazzaglia dà spazio anche a quello che succede dietro le quinte della Storia, nei letti matrimoniali. Il 10° capitolo, viene proprio intitolato, «la diplomazia delle lenzuola». E qui che si racconta del tour parigino della Contessa Castiglione. E poi le escursioni sessuali di Garibaldi, «eroe professionista, dopo le battaglie va a letto con le ‘ camicie rosse da notte’, fra le quali a Napoli, viene arruolata perfino Madame Bovary».

Il rapporto con le donne di Garibaldi è molto intenso, curiosa e alquanto bizzarra la proposta che fa alle donne palermitane quando si accorge che all’orfanotrofio muoiono novanta lattanti su cento. Per Pazzaglia, «è un chiaro invito a tirar fuori le mammelle», che peraltro le procaci dame palermitane, esagerando un po’ gliele vanno a portare direttamente al Palazzo Reale, dove lui risiede.

Pertanto Pazzaglia puntualizza, «ricomincia così anche in Sicilia il pellegrinaggio erotico delle patite per l’eroe. Dice un volontario toscano: “Appena finisce una battaglia, si riapre il troiaio”». Una situazione che assomiglia molto all’harem   ‘costruito’ da Gabriele D’Annunzio nella sua residenza sul Garda.

Pazzaglia continua a precisare che l’eroe dei due mondi, «più che dagli austriaci e da Camillo Benso, Garibaldi sarà sempre perseguitato dalle donne. Per tutta la vita gli perverranno quintali di ciocche di capelli di tutti i colori; tonnellate di ritratti e di poesie. Le inglesi specialmente gli correranno dietro[…]». Una di queste addirittura, riuscirà a tagliargli le unghie, e a conservarle come reliquie. Sembra che anche le monache di un convento palermitano sono coinvolte nell’entusiasmo per Garibaldi.

Pazzaglia sempre con il tono ironico ci racconta gli ultimi giorni del grande regno del sud, fino alla capitolazione della piazzaforte di Gaeta. Il testo, già nel primo capitolo si presenta con un pezzo forte, si tratta di una scheda di presentazione di Garibaldi, da parte della polizia politica del Regno Sardo. «Nel bel principio di sua vita adulta, si trovò complicato in delitti politici e venne imprigionato. Uscito dalla prigione, si associò ad altri proscritti del suo genere e, noleggiato un piccolo naviglio, si diede a scorrere il mare facendo l’onorato mestiere di Pirata».

Il testo di Pazzaglia è denso di particolari, riguardo alle tante, troppe, «scappatelle»del generale e tra queste merita una menzione particolare la sgradita «sorpresa» della giovane adorabile Giuseppina Raimondi. Garibaldi si invaghisce di questa giovane ragazza ma sul punto di sposarla, la trova incinta e per lui grande conoscitore di donne, è un oltraggio insopportabile. E’ il 24 gennaio 1860, per distrarsi e dimenticare Garibaldi andrà a preparare la cosiddetta Spedizione dei Mille. E così «Francesco II, a Napoli, in questo momento non sa che fra pochi mesi perderà il trono per colpa di una sposa incinta».

Interessante la dettagliata descrizione dei Mille, da parte di Pazzaglia: intanto erano mille e ottantasette. C’erano centocinquanta avvocati, cento medici, venti farmacisti, cinquanta ingegneri. Il resto, professori, musicisti e soprattutto perdigiorno. I Mille, scrive Pazzaglia, «[…] quasi tutti, partendo per la Sicilia, stanno scappando da qualcuno e da qualcosa: mogli abbandonate, amanti infuriate, figli illegittimi, debiti, conti da regolare con la Giustizia, ma non sempre per ragioni politiche».

Più avanti aggiunge: «quasi tutti sono alla ricerca ossessiva di nuove sottane da conquistare».

Probabilmente la spedizione dei Mille è l’avvenimento più farsesco di tutto il Risorgimento. Ma prima di parlarne, vediamo il trattamento di Pazzaglia nei confronti della tragica disavventura di un altro “eroe”, Carlo Pisacane. Anche qui c’è una descrizione non agiografica del personaggio. Intanto si dà conto della sua ambigua relazione con le donne, da quella avuta con una giovane già sposata, conosciuta durante la sua permanenza nella piazzaforte di Civitella del Tronto e poi l’altra tormentata relazione con Enrichetta Di Lorenzo, madre di tre figli. Poi il continuo peregrinare, la partecipazione alla rivoluzione romana con Mazzini. Infine si trova coinvolto, forse non sapendo più cosa fare, nella missione impossibile, quella di far sollevare le popolazioni calabresi contro il Borbone. «Ci vuole uno scervellato, uno sconsiderato, un imprudente e, perchè no, uno squattrinato che non sappia come uscire dalla situazione economica e sentimentale insostenibile: è il ritratto di Carlo Pisacane».

Il 9° capitolo è dedicato al re Francesco II, descritto probabilmente per quello che è stato, un debole, timido, malinconico e probabilmente un po’ fatalista, sopratutto, quando ha abbandonato Napoli, senza combattere.

Ritornando alla narrazione della conquista del Sud, titolo di un brillante pamphlet dell’indimenticabile grande narratore Carlo Alianello, a partire dal 12° capitolo (I pantaloni bianchi si ritirano) si scrive sulla veloce marcia trionfale di Garibaldi alla conquista del povero regno Duo siciliano. Qui naturalmente la descrizione tragicomica di Pazzaglia dà il meglio di tutta l’opera. In primo piano c’è l’opposizione militare dell’esercito borbonico che rasenta il programma di “oggi le comiche”. Prima Lanza, poi Landi, invece di combattere, arretrano in continuazione. Praticamente, ormai come hanno scritto quasi tutti gli storici, tutti gli ufficiali borbonici fanno di tutto per nascondere il proprio tradimento al loro legittimo Re.

Infatti, «quando i garibaldini non ce la fanno più e stanno per essere sopraffatti, – scrive Pazzaglia – la tromba suona la ritirata. Ma non è Beppe Tironi che suona, la tromba è quella del trombettiere borbonico. Tutti – come si dice – non riescono a credere alle proprie orecchie, né le camicie rosse, né i pantaloni bianchi. La carrozza del generale Landi si allontana verso l’abitato di Calatafimi, […]I soldati borbonici, increduli, cominciano a ritirarsi ordinatamente, protetti dalla cavalleria». Nota Pazzaglia, «c’è perfino la cavalleria, come mai non viene lanciata verso i garibaldini esausti, che crollano a terra per la stanchezza tra i loro trentadue morti e centinaia di feriti?».

Sempre a riguardo dei tradimenti degli ufficiali borbonici, Pazzaglia dà conto della raccapricciante e umiliante lettera di armistizio, scritta a Palermo, dal generale Lanza,  indirizzata a Sua Eccellenza, il generale Garibaldi. E qui c’è la frase volgare, irriguardosa diretta a Lanza di Pazzaglia, che sull’episodio cita il commento dell’ammiraglio inglese Mundy, l’eminenza grigia che ha seguito dalla sua nave tutta la spedizione garibaldina. Il Mundy facendo riferimento a Garibaldi, così commentava: «[…]L’uomo che fino a quel momento era stato stigmatizzato con gli epiteti più vituperosi della umana natura e denunziato nei proclami come un pirata, un ribelle, un filibustiere, eccolo elevato al titolo di Generale e di Eccellenza[…]».

Soltanto un ufficiale, si è distinto, facendo il proprio dovere di soldato, mi riferisco al maggiore Ferdinando Beneventano Del Bosco, che si è battuto come un leone in quel di Milazzo e per poco non riusciva ad avere la meglio dei garibaldini. La terza battaglia della Sicilia, quella di Milazzo,viene descritta da Pazzaglia in modo dettagliato.

Il 19 capitolo del libro è dedicato a «quella canaglia di Nino Bixio». E subito il pensiero si rivolge alla carognata di Bronte, dove gli eccidi diventano stragi.

Ma ritorniamo alla spedizione, il testo racconta degli ultimi avvenimenti, l’arrivo di Garibaldi a Napoli, mentre prima Francesco II abbandona precipitosamente la capitale. Liborio Romano, ultimo ministro napoletano, prepara l’arrivo del generale “liberatore”, si fa aiutare dai capi camorristi e anche da quelle donne, sempre prime a correre tra le braccia del vincitore. Naturalmente Pazzaglia è attento a descrivere la “sacra” scena dell’arrivo col treno e poi della festa.

Poi si passa alla battaglia del Volturno, che non mormorò. Qui l’autore descrive la battaglia, Garibaldi si posiziona sempre su un altura per trovarsi contemporaneamente fuori pericolo, è successo anche a Calatafimi. Peraltro secondo Pazzaglia, era una abitudine del generale, vedere le battaglie dall’alto, ecco perché la “fortuna”, ha sempre accompagnato il nostro eroe. Viene colpito soltanto sull’Aspromonte, dal fuoco”amico”.

E per concludere, l’ultima battaglia, quella della fortezza di Gaeta, l’unica volta che Francesco II abbia resistito insieme alla sua giovane regina Maria Sofia. Anche qui Pazzaglia da inviato di un giornale inesistente, racconta gli avvenimenti, l’eroismo dei soldati napoletani, insieme ai loro ufficiali rimasti fedeli al loro Re. I piemontesi dal mare vomitano migliaia di bombe sull’inerme fortezza che alla fine deve arrendersi. E quindi non rimangono che «gli occhi per piangere».

Oltre a pubblicare i consueti proclami finali alle popolazioni napoletane del re Francesco, Pazzaglia da giornalista presenta anche la situazione politica del momento. Si fa aiutare dal generale Del Bosco, che ha mantenuto i contatti con i centri di resistenza in Calabria, che lui stesso aveva cominciato a preparare, probabilmente per farne la Vandea d’Italia. Dalle risposte di Beneventano si evince che le azioni del cosiddetto brigantaggio erano già iniziate. E qui il discorso si fa interessante, perché l’”inviato” Pazzaglia, chiede a Del Bosco come mai nessuno ha sfruttato la Calabria, il territorio ideale per fare la guerriglia e quindi per contrastare l’avanzata garibaldina. Naturalmente l’argomento è interessante per una possibile ed eventuale ricerca storica. Per il momento mi fermo, prossimamente riprenderò l’argomento presentando l’ottimo e documentato testo di Gilberto Oneto, l’Iperitaliano (riferito a Garibaldi), pubblicato alcuni anni fa dalla casa editrice Il Cerchio.

Un’ultima annotazione, da quello che vedo in rete, il testo di Pazzaglia non è stato ripubblicato, evidentemente dà fastidio alla cosiddetta storia ufficiale.

Domenico Bonvegna

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