di ANDREA FILLORAMO
Con le dimissioni di Benedetto XVI, un papa sfiduciato, stanco, prostrato dalle “trame” interne, incapace di reggere le sorti legate al futuro, erede, non si sa se inconsapevole, di una situazione ecclesiastica, alla quale aveva contribuito, in maniera determinante, prima che il conclave lo eleggesse come pontefice romano, e con l’elezione di Bergoglio a vescovo di Roma e, quindi, a successore di Pietro, si è chiuso un lungo processo storico, in cui la Chiesa Cattolica, si è trovata a vivere.
Papa Francesco ha considerato la crisi della Chiesa, come tutte le crisi che subiscono le società, un “fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione, la Chiesa”, “un’esperienza umana fondamentale”, “una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale”. Non la si può evitare, e i suoi effetti sono sempre “un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare”.
Quali sono le motivazioni di fondo che hanno condotto alle condizioni attuali la Chiesa Cattolica? Fiumi di inchiostro si sono versati, che attribuiscono il disorientamento che ne è derivato ora alla secolarizzazione ora al consumismo, al relativismo etico, ecc. Non mancano i tradizionalisti e settori conservatori della Chiesa che attribuiscono tale disorientamento al concilio Vaticano II. Non mancano neppure i progressisti che pensano e dicono che la Chiesa sia “immobile”, che si è arrestata di fronte al celibato dei preti, alla morale sessuale, al maschilismo ecclesiastico.
Lucio Brunelli, vaticanista del Tg2, scrive che la crisi viene da lontano, inizia negli anni ‘50, quando c’era “una chiesa militante, tosta nella dottrina, influente sulla vita politica. Eppure, salvo ancora un rispetto esteriore di forme e convenzioni sociali, non catturava più il cuore e le menti di larga parte delle giovani generazioni. La pratica religiosa ancora teneva, ma era una tenuta simile a quella di un’impalcatura priva di agganci solidi sul terreno. Basta uno scossone e viene giù. Il vento del ’68 portò via d’un botto alla Chiesa una generazione di figli inquieti. L’avvento di un nuovo potere consumista “che se la ride del Vangelo” — come profetizzava Pasolini negli anni ‘70 — sembrò far svanire come neve al sole, in poco più di un decennio, tutto un tessuto popolare cristiano, legato a un’Italia rurale, che c’era voluto secoli per formare.
“Allora – aggiunge il cardinale Wimeijk, arcivescovo di Utrecht – avevamo un surplus di sacerdoti, ordini religiosi congregazioni. Molti missionari nel mondo provenivano dalla piccola Olanda. Ma presto si è capito che le fondamenta di quella orgogliosa colonna cattolica erano molto meno solide di quanto sembrasse”.
È indubbio che molte erano le carenze di quel cattolicesimo, così come veniva ad essere trasmesso e vissuto e utilizzato come paradigma di perfezione cristiana, in cui si esigeva un’accettazione passiva del dogma e una dottrina morale limitata, per lo più, alla questione sessuale.
Quando, negli anni 60, si impose uno stile di vita improntato a criteri di efficienza e dinamismo e caratterizzato dall’aspirazione all’affermazione sociale, i cattolici, i preti, le scuole teologiche, i Seminari, erano totalmente impreparati e hanno continuato a porsi sempre in posizione di difesa, incapaci di sviluppare un confronto critico, ad aprirsi ad una cultura che non fosse di polemica antimodernista, una teologia dogmatica ben lontana dall’antropologia, dalle categorie di esperienza.
La formazione impartita, quindi, al clero, dominata dalla Neoscolastica con il suo radicale atteggiamento antimoderno, ostile al quadro delle libertà, lasciava un vuoto, quello di una visione dell’uomo aperta al soprannaturale, incutendo sempre il timore di fronte al mondo secolarizzato, avvertito come antropologicamente estraneo e nemico.
La Chiesa, quindi, nel suo insieme è tornata a blindarsi, impaurita di fronte ad una secolarizzazione sempre più arrogante e ha chiuso nuovamente le sue porte.
Ciò che difetta al cattolicesimo odierno, anche e soprattutto a quello impegnato, è la categoria di “incontro”, una categoria che consente di andare direttamente al cuore dell’umano.
Papa Francesco, il 13 settembre 2018, ha affermato: “La teologia non può essere astratta — se fosse astratta, sarebbe ideologia —, perché nasce da una conoscenza esistenziale, nasce dall’incontro col Verbo fatto carne! La teologia è chiamata allora a comunicare la concretezza del Dio amore. E tenerezza è un buon “esistenziale concreto”, per tradurre ai nostri tempi l’affetto che il Signore nutre per noi. Oggi, infatti, ci si concentra meno, rispetto al passato, sul concetto o sulla prassi e più sul “sentire”. Può non piacere, ma è un dato di fatto: si parte da quello che si sente. La teologia non può certamente ridursi a sentimento, ma non può nemmeno ignorare che in molte parti del mondo l’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente”.
Il Papa fa qui un’affermazione di grande rilievo, come a dire che la linea d’onda lungo la quale il cristianesimo può incontrare il mondo non è più quella filosofica degli anni ’50, segnati dall’esistenzialismo e dalle domande sul senso della vita, né quella politica degli anni ’70, segnati dall’impegno militante e ideologico del marxismo, ma trova la sua possibilità in una sensibilità nuova che caratterizza l’ora presente.
Questo e solo questo è l’orientamento del Papa e, quindi, della Chiesa, che i pontefici futuri saranno chiamati a tradurre in atti concreti pastorali, per giungere al completamento di quel processo iniziato negli anni 60 con il Concilio Vaticano II.