di Davide Romano
Il mio primo impatto con i libri è stato un incontro fatale, quasi un colpo di fulmine. Mio nonno materno, che non parlava mai di sé, ma lasciava che i suoi libri parlassero per lui, mi aprì le porte della sua biblioteca come un sacerdote che introduce il novizio al mistero. Immaginate scaffali che parevano sostenere l’intera volta celeste, poltrone di pelle consunta da anni di letture e silenzio, e un ragazzino che, piuttosto che correre dietro a un pallone, si trovava incastrato tra tomi più grandi di lui. Se qualcuno mi avesse detto che quel giorno sarebbe stato l’inizio di un’ossessione, non gli avrei creduto. Eppure eccomi qui, con una casa trasformata in una succursale della biblioteca nazionale e il costante problema di dove infilare l’ennesimo volume.
Ogni volta che entro in una libreria – o che ci entravo, perché ora rischio di essere portato via con la camicia di forza – sento lo stesso richiamo di allora. La differenza è che, ai tempi, mio nonno mi regalava i suoi libri; ora invece sono io a sacrificare stipendi, spazi vitali e, talvolta, anche rapporti umani per far entrare in casa l’ennesimo libro. Perché sì, non è mai “un libro in più,” è sempre l’ultimo. Questo mi ripeto, mentre devo decidere se piazzare Kierkegaard sullo sgabello o smontare il lampadario per fare spazio a una nuova pila. D’altronde, diceva Montaigne: “Mi considero felice se ho un libro sotto mano”. Io però non ne ho solo uno, ne ho diecimila. Più che felice, ormai sono sepolto.
La cosa ironica è che ogni volume acquistato è frutto di un calcolo, di una necessità quasi metafisica. “Questo mi servirà per capire meglio l’esistenzialismo russo.” “Questo altro è perfetto per completare la mia collezione di commentari biblici.” “Questo? Beh, non posso non avere questo, no?” Mi giustifico con citazioni bibliche e filosofiche. “Molto studio affatica il corpo” (Ecclesiaste 12:12), ma tanto il corpo lo uso giusto per spostare i libri da un angolo all’altro. L’ultimo episodio comico è stato quando ho dovuto dormire in posizione fetale, circondato da volumi di Heidegger e Sant’Agostino, come un anacoreta circondato dalle sue reliquie. Almeno loro, però, avevano lo spazio per respirare.
Si potrebbe pensare che questa ossessione per la carta sia il segno di una mente smarrita. Non nego che, a tratti, sembra così anche a me. Qualche anno fa, mentre stavo organizzando un’intera sezione della mia biblioteca in base all’ordine alfabetico degli autori – un atto di megalomania pura – mi resi conto di essere diventato una specie di governante della mia follia. Ogni volta che trovo un libro fuori posto, sento un fastidio quasi fisico, come se quel disordine minasse la ricerca della verità che mi perseguita da sempre. E qui entra il paradosso: accumulo libri in cerca di verità, ma ogni volta che ne apro uno, non trovo che nuove domande. “Chi cerca trova”, sì, ma qui si trova solo altro da cercare.
E mio nonno? Lui rideva sotto i baffi, lo vedo ancora, mentre mi porgeva quel suo volume di Dante, con un’espressione che sembrava dire: “Ti stai cacciando in un bel guaio, ragazzo.” Aveva ragione. È iniziato tutto con la Divina Commedia, e ora mi trovo in un inferno cartaceo dal quale non riesco più a uscire. Il mio amico Leopardi – che occupa un intero scaffale, tra l’altro – diceva che la felicità è un miraggio, un desiderio che non si realizza mai del tutto. E io, collezionando libri, ho solo ingrandito quel miraggio.
Forse è vero, come dice Pascal, che “non cercheresti Dio se non lo avessi già trovato.” Ma tra diecimila libri, Dio lo trovo solo tra le pagine, e ogni volta si nasconde un po’ più in là. Continuo a comprare, continuo a leggere, continuo a cercare. Chissà, forse un giorno troverò la Verità nascosta sotto l’ennesima pila di libri, proprio mentre la mia casa crolla su se stessa sotto il peso di tutto questo sapere. E in fondo, non sarebbe neanche la peggiore delle fini.