Sono tante le pubblicazioni sulla grande guerra, ma sono pochi quelli che descrivono le conseguenze del duro ambiente della guerra che ebbe sulla psiche dei soldati. Qualcosa l’ho letto nel libro di Aldo Cazzullo, “La guerra dei nostri nonni”, che tra l’altro cita uno studio di Annacarla Valeriano, un “martirologio straziante, con un titolo tratto dalle annotazioni cliniche dell’epoca:‘Ammalò di testa’”. (Donzelli editore).
Ma anche in “Sangue dei terroni” di Lorenzo Del Boca, in “Plotone di esecuzione” di Monticone e Forcella. Un intero libro che ha indagato su questo argomento è del psicologo e psicoterapeuta, Roberto Marchesini, “Il Paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della Prima Guerra Mondiale”, pubblicato da D’Ettoris Editori (2010). Quella di Marchesini è una ricerca impressionante, sviluppata utilizzando diari, corrispondenze e materiale clinico inedito proveniente da un ospedale psichiatrico attivo il Mombello di Milano.
Interessante la prefazione al libro di Oscar Sanguinetti, è una breve sintesi che ci fa entrare nella specificità della Grande Guerra.
Infatti Sanguinetti ci tiene a far percepire il carattere dirompente della Prima guerra: un conflitto che si basa non più sui duelli, sul corpo a corpo. E’ la prima guerra che si poggia sull’arma da fuoco, che colpisce a distanza, in maniera anonima, uccidendo più di un uomo alla volta. L’arma aerea e i missili possono portare la morte a distanza, sul territorio del nemico e può colpire anche i civili.
Sembrerebbe ozioso parlare della Prima guerra mondiale, ma per Sanguinetti, la guerra “moderna” comincia proprio lì. Fanno la loro comparsa le armi di «sterminio di massa», come i gas asfissianti, i reticolati, le mine, i carri corazzati, gli aeroplani da bombardamento, i sommergibili, i lanciafiamme, tutte armi per infliggere danni di proporzioni spaventose all’esercito avversario.
«I combattenti sono formate da masse umane tanto numerose, quanto anonime e grigie. I soldati, per lo più contadini, sono veri e propri automi in uniforme – non più in divisa […]». Soldati sottoposti a ufficiali infiammati da idee nazionaliste, che mantengono verso la truppa quel distacco tra il ceto borghese e le masse dei contadini. Sanguinetti evidenzia l’imbarbarimento della guerra, pertanto le ecatombi che si sono registrate sui vari fronti, furono il prodotto non solo delle nuove armi, ma anche il risultato della miopia e del cinismo degli alti comandi. E non è un caso che i primi genocidi del XX secolo, quello armeno e quello dei cristiani iracheni, maturino nel clima e nel corso di quegli anni.
Pertanto secondo Sanguinetti, non bisogna meravigliarsi che una guerra così inumana «si ripercuota in maniera devastante sulla psiche del fante o dell’artigliere – per lo più poveri contadini, mai allontanatisi dal loro villaggio -, uscito vivo dai massacri indiscriminati della prima linea o scampato alla spietata disciplina punitiva delle trincee».
Soltanto la Chiesa cattolica coglierà la drammaticità della guerra. Già Pio X, nel 1914, aveva profetizzato che stava per scoppiare un “guerrone”, e poi Benedetto XV, l’ha definita una “inutile strage”, una «orrenda carneficina che disonora l’Europa». Soltanto un potente di allora, darà ascolto al papa, è il giovane e fervento cattolico imperatore di Austria-Ungheria Carlo I di Asburgo, ma si trattava di un santo…
Il lavoro di Marchesini viene presentato da Ermanno Pavesi, psichiatra, dove mette in evidenza i danni causati dalla guerra sui nostri soldati. Anche lui fa riferimento alle descrizioni di Emilio Lussu e Erich Maria Remarque. «L’opera dell’autore rende giustizia a tanti combattenti la cui sofferenza psichica dovuta a condizioni di vita estremamente difficili non è stata sempre apprezzata nel giusto modo».
Il dramma della prima guerra mondiale per Pavesi non era dovuto soltanto alla concezione ottimistica del Progresso, ma era anche conseguenza «della crisi della cultura e della visione del mondo allora dominanti, soprattutto nella cultura tedesca».
Pavesi si sofferma sulla concezione della razza da parte dell’elite culturale tedesca. I tedeschi erano convinti che il primato ora spetterebbe alla «quinta sotto-razza, quella germanica». Pavesi individua un certo ambiente culturale, un miscuglio di teorie teosofiche, unite alle concezioni darwinistiche, che ritengono necessari i grandi eventi come cataclismi, per passare da una fase all’altra della Storia. Da questo punto di vista sencondo questi ambienti anche le guerre sarebbero necessarie per l’evoluzione dell’umanità. «Le guerre hanno lo scopo di fare tabula rasa per uno sviluppo superiore e per il progresso della cultura. Dal punto di vista della vita le guerre e ogni lotta per l’esistenza perdono il loro aspetto orrendo, poiché le anime umane che perdono le loro spoglie mortali sul campo di battaglia cercano e raggiungono un’organizzazione superiore e più perfetta dopo una fase di riposo, di ristabilimento e di approfondimento».
Pertanto per l’evoluzione dell’umanità, la guerra è un mezzo legittimo, che assume anche i caratteri millenaristici, soprattutto per il popolo tedesco avrà la possibilità di diventare una potenza mondiale.
«Nella prima fase della guerra prevale la convinzione dell’ineluttabilità della vittoria; i primi insuccessi e le morti dei propri soldati vengono esaltati come sacrificio individuale, mentre gli errori crescenti della guerra vengono giustificati in senso darwinistico, come eliminazione del meno adatto per fare spazio a chi è più adatto».
Nell’introduzione Marchesini spiega perchè ha scritto “Il Paese più straziato”. L’ispirazione glie l’ha data suo nonno, “Cavaliere di Vittorio Veneto”.
Nel primo capitolo ha riassunto le vicende della Grande Guerra, dando particolare rilievo alle cause che la scatenarono e che sono, ancora oggi, oggetto di controversie da parte degli storici. Marchesini fa riferimento al cambio di alleanza dell’Italia, alle offerte dei territori che già avevano avanzato l’Austria per la neutralità del nostro Paese. E poi invece l’improvvisa propaganda a favore della guerra dei vari gruppi politici, che si distinsero tra interventisti e contrari. La decisiva funzione della Massoneria nel convincere il governo italiano a dichiarare guerra all’Austria, al fine di distruggere l’Impero Asburgico. «Alla monarchia di diritto divino la massoneria volle sostituire una ‘repubblica universale democratica’; al concetto di patria quello di ‘nazione’». L’Impero Asburgico, ormai in decadenza, ma rappresentava sempre il Sacro Romano Impero, fondato da Carlo Magno, baluardo del cattolicesimo in un’Europa dominata dall’anticattolicesimo.
Peraltro l’Impero Asburgico era una contraddizione esplicita della dottrina degli Stati nazionali. Sotto l’ombrello asburgico vivevano, certo non senza tensioni, tutt’altro che popoli “oppressi”. «Una volta distrutto l’Impero la pacifica convivenza di questi popoli non diverrà che un’utopia».
Chi era il soldato italiano? A questa domanda Marchesini risponde aiutandosi con una tabella pubblicata dal Corriere della Sera del 4 febbraio 1916. L’Italia all’epoca della guerra, era il Paese più povero e meno popoloso. Alimentazione frugale e montante analfabetismo. A parte i pochi militari di carriera, gli ufficiali, provenienti dal ceto borghese e universitario, si registrava una gran massa di contadini, proveniente da tutte le regioni d’Italia.
La Grande Guerra fu soprattutto “la guerra delle trincee”. «L’evoluzione tecnica aveva reso terribilmente micidiali gli scontri tra gli eserciti […]». Naturalmente la vita prolungata nelle trincee oltre a procurare effetti materiali, produce nell’organismo disagi fi natura psichica. Esaurimenti nervosi, specialmente tra gli ufficiali, sotto forma di depressione.
Nel secondo capitolo l’autore dello studio traccia un ritratto del soldato italiano che combatté in quegli anni, facendo uso di dati statistici riferiti all’intera popolazione nazionale e di descrizioni coeve. Presenti sono i disturbi della percezione, distinti in due categorie: le distorsioni e le falsificazioni percettive. Ci possono essere vari tipi di distorsioni, Marchesini ricorda quelle acustiche, alterate dall’abitudine al fragore delle esplosioni. Poi ci sono le falsificazioni percettive come le allucinazioni.
«Gli ospedali militari erano pieni di soldati che presentavano lo stesso corteo di sintomi: confusione, intorpidimento, stordimento, pallore, sguardo spento; i loro sonni erano agitati, spesso assumevano atteggiamenti di difesa, fuggivano improvvisamente, si nascondevano ad ogni minimo rumore; in grave deficit di coscienza, a volte sembravano fissare una scena nello spazio, e partecipare ad essa; compivano movimenti catatonici, dondolavano per ore, potevano passare giornate con semplici oggetti d’uso comune (bottoni, stringhe); potevano assumere atteggiamenti infantili o animaleschi; soffrivano di allucinazioni visive e uditive».
Marchesini individua disturbi dell’attenzione, della memoria, della vigilanza, della coscienza.
L’alterazione dello stato di coscienza, ha come effetto la diminuzione di tutte le funzioni cognitive ad essa collegate. Questo si riscontra nella vita quotidiana di trincea, al momento dell’assalto.
Marchesini inoltre rileva alterazioni della coscienza dell’io, «numerosi soldati hanno dichiarato di essersi considerati, nei momenti più difficili della vita di trincea, come già morti; oppure di percepirsi come staccati dal proprio corpo». Era evidente la depersonalizzazione e la derealizzazione. Altri disturbi evidenziati erano quelli del pensiero,deliri, disturbi dell’intelligenza, della psicomotricità,dell’affettività e dei sentimenti, del rapporto con il corpo, di comportamento. Diffuso l’autolesionismo e soprattutto l’alcoolismo.
Nel terzo capitolo Marchesini ha cercato di descrivere l’ambiente di guerra, evidenziando la parte che ebbe nello scatenare i vari disturbi psichici. Qui l’autore fa riferimento al clima culturale nel quale si muoveva la psichiatria negli anni della guerra. Sostanzialmente ci si affidava alla filosofia positivista, in Italia in particolare a Enrico Ferri e Cesare Lombroso. «L’elité culturale italiana, affascinata dalle teorie positiviste, contava di educare le masse tramite gli strumenti della scuola e dell’esercito». Soprattutto l’esercito era considerato una “scuola delle nazioni”, «luogo dove la gioventù poteva essere selezionata e educata in vista del bene biologico futuro della nazione».
La preoccupazione maggiore dei medici era di «isolare l’anomalo, il degenerato, per preservare l’esercito dai disordini e insubordinazioni e l’intera società dal crimine». Ecco che sono comparse le schedature dei soldati.
Nel quarto capitolo si analizza il trattamento dei soldati negli ospedali pischiatrici militari, in particolare quello di Mombello, nei pressi di Milano.
Infine il libro riporta un’appendice del direttore del manicomio Provinciale di Mombello, Maggiore dott. Prof. Giuseppe Antonini.
DOMENICO BONVEGNA
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