LEPANTO: UNA VITTORIA STRAORDINARIA DELLA LEGA SANTA

Leggere un saggio storico ben scritto è importante, ci permette di vedere la storia in modo meno schematico di come ci viene insegnata a scuola. Di solito ricordiamo qualche data, ma pochi ricordano qualcosa che vada oltre alla data in cui fu combattuta per esempio la battaglia di Lepanto, del 7 ottobre 1571, dove vinse la Lega Santa coordinata da Papa Pio V.

Leggendo il libro di Alessandro Barbero, “Lepanto. La battaglia dei tre imperi” Edizione Laterza (2010) scopriamo i travagliati preparativi che la precedettero, vediamo quanto fossero difficili all’epoca le comunicazioni e quanto i ritardi dei messaggi incisero sull’effettivo andamento delle battaglie o sulle decisioni politiche, tocchiamo con mano come anche allora la politica e il potere fossero corrotti e come anche allora due potenze nemiche fossero in stretti rapporti commerciali mentre politicamente cercavano di distruggersi. Il libro di Barbero non è mai pesante, nonostante le 769 pagine. Barbero lo scrive nello stile di un romanzo, rende così la lettura scorrevole e appassionante, e riesce a mostrare con chiarezza i fatti e il mondo in cui si svolsero.

Certo leggere un libro non è così semplice, è un vero e proprio lavoro. “Lepanto” è un testo ricco di informazioni, di nomi, di fatti, di particolari, “ci permette di lasciare la visione piatta e monotona della storia, facendoci recuperare la passione di tuffarsi in mondi lontani nel tempo che sono stati e che influenzano quello che siamo oggi”. Anche se Barbero è lontano dalle mie idee politiche, lo considero un grande storico, uno dei migliori divulgatori della storia nel nostro Paese.

Alla notizia dello sbarco degli ottomani a Cipro Venezia non poteva restare inerte, non potevano far finta di niente neanche gli altri Stati del Mediterraneo. Era evidente che la minaccia di essere conquistati dai turchi si rafforzava ogni giorno di più, così si cercò di allestire una flotta, una spedizione con navi veneziane, del re di Spagna, dello Stato Pontificio al fine di contrastare questo tentativo di impadronirsi del Mediterraneo e con esso dei suoi traffici. Ma fra disaccordi di gestione sull’azione da intraprendere, picche e ripicche non si arrivò subito a uno scontro con la grande flotta ottomana. Pio V scopre quanto sia difficile armare una flotta, scrive Barbero nell’11° capitolo. Occorreva fare di tutto per fare congiungere le due flotte quella veneziana e quella del Re spagnolo Filippo II. “Il 1 luglio Pio V aprì le trattative, illustrando agli inviati del re cattolico e di Venezia la necessità che i cristiani unissero le loro forze contro la minaccia ottomana”. La proposta era quella di mettere in mare 200 galere, “metà del re e metà di Venezia, provvederla di soldati e vettovaglie sufficienti per un a lunga campagna navale e terrestre, e dividere le spese in modo che la Spagna sopportasse la metà, Venezia un terzo, e il Papa un sesto”. Poi c’era lo scoglio del comando unificato, naturalmente si fanno diversi nomi, i più frequenti sono quelli di Marcantonio Colonna, il generale del Papa, il genovese Gian Andrea Doria, il veneziano Sebastiano Venier. Alla fine il comando sarà affidato al giovane don Juan d’Austria. Intanto i turchi sbarcano a Cipro e i veneziani si preparano ad una lunga guerra d’assedio. Nel 12° capitolo ci sono le decisioni che hanno preso i generali turchi prima di aggredire l’isola, e un lungo elenco dei bisogni dell’armata turca. Chiaramente in una recensione non si può raccontare tutto, si è costretti sempre a fare selezione. Anche se quasi sempre le mie diventano delle vere proprie dispense di studio come ha sostenuto qualche amico.

Alla conquista dell’isola di Cipro. Mentre i comandanti veneziani e ciprioti discutevano su cosa fare quando la flotta nemica si fosse presentata sulle coste dell’isola, Pialì il comandante supremo interrogava i prigionieri dei corsari e così sapeva tutti i segreti dell’isola. Un vero sollievo sapere che le spiagge non erano difese, i veneziani erano asserragliati nelle fortezze di Nicosia e Famagosta. Molto difficile calcolare le forze turche, quanti giannizzeri, quanti sipahi, quanti erano i cavalli, quanti erano le galere. In ogni caso, importante era il numero degli zappatori che dovevano scavare le trincee e i camminamenti sottoterra, e degli artiglieri, visto che c’era da fare almeno due assedi impegnativi.

Barbero si avvale come al solito di diverse fonti, quelle delle Nunziature, del Calepio, Paruta, Setton, Provana. Tuttavia sottolinea Barbero, i cronisti e poi chi scrisse negli anni immediatamente seguenti, spesso non concordano affatto fra loro, si danno delle cifre diverse. La cifra più comune, è di 40.000 uomini. Cifre discordanti anche per quanto riguarda i difensori per fronteggiare l’invasione. I comandanti veneziani avevano 5 mila italiani e 11 mila miliziani locali. La prima fortezza presa d’assalto fu la capitale Nicosia che aveva una cinta muraria con fossati e bastioni abbastanza moderni. Lala Mustafà è il comandante che pone l’assedio di Nicosia che la prende prima del previsto, così Cipro ben presto diventa provincia dell’impero ottomano, tranne Famagosta che viene presa successivamente. Il racconto della presa di Nicosia occupa il 14° capitolo. Il Barbero ci informa che la maggior parte della popolazione rurale si sottometteva all’invasore senza combattere, anzi in molti aspettavano questa occasione e non vedevano l’ora di essere “liberati”, secondo Barbero i ciprioti erano asserviti dai veneziani.

Dopo l’assedio si registra il massacro finale dei civili; sui 17 capitani che comandavano la fanteria italiana, 6 sono caduti nel combattimento, uno morto di malattia, 6 furono uccisi alla fine dopo la capitolazione. Ragazzi e ragazze furono fatti schiavi e altri regali furono spediti al sultano. Praticamente precisa Barbero, “Nicosia ebbe la sorte spaventosa di tutte le città assediate che cadevano senza aver patteggiato la capitolazione, aggravata dal fatto che nelle guerre fra cristiani e musulmani i civili catturati erano ridotti in schiavitù”. Poi i nobili avevano la possibilità del riscatto. Le notizie giunte in Occidente arrivarono direttamente da Costantinopoli, attraverso il rapporto del bailo Marcantonio Barbaro. Il racconto è abbastanza dettagliato del saccheggio turco nella città, vi risparmio i particolari. E la flotta cristiana dove si trova? Nei porti dell’isola di Candia con i loro comandanti in litigio continuo sul da farsi, il Doria e il Colonna su tutti. Sembra però che sia gli spagnoli che i romani avessero voglia di combattere, quello che frenava era lo Zane.

La conquista di Famagosta. In questa fase storica il comandante che si è distinto maggiormente è stato il Marco Quirini che portò aiuto con uomini e viveri con una piccola flotta alla fortezza di Famagosta. E’ nel 24° capitolo del libro, dove si affronta l’assedio dei turchi di Famagosta, la piazza cristiana viene comandata dal Bragadin e il Baglioni con 4 mila fanti italiani e 3 mila greci reclutati nell’isola. Naturalmente Barbero ci offre una scrupolosa descrizione dell’assedio turco e della difesa veneziana. Alla fine dopo aver esaurito l’ultimo barile di polvere da sparo, non resta che arrendersi. Ci sono molte contraddizioni sul dopo come si svolsero i fatti della trattativa di resa tra i comandanti cristiani e Lala Mustafà. Qui Barbero, ritiene che il dialogo, che tra l’altro avveniva senza interpreti, tra Bragadin e il comandante turco è degenerato. Sembra che il Bragadin ha osato insultare il pascià Mustafà, che per non perdere la faccia, lo ha mandato al supplizio prolungato per giorni e alla fine finì scorticato vivo. Anche a Famagosta ci fu una carneficina, dei soldati sopravvissero solo 700 che furono resi schiavi, alcuni di loro pagando il riscatto riuscirono a liberarsi.

Dal 19°, il 23° capitolo, il testo si occupa della preparazione della battaglia finale delle forze cristiane contro quelle musulmane. Viene descritta la lunga e difficile preparazione. Gli spagnoli inventariano le loro galere, a Napoli e a Genova e a Messina, si bandiscono appalti, una vera fortuna per chi prende gli appalti, si ammassano rifornimenti. L’ambasciatore spagnolo Mendoza che deve occuparsi di questo lavoro, impazzisce per lo stress. Si lavora per reclutare la fanteria che poi combatterà a Lepanto. Arrivano perfino 7.100 fanti tedeschi. “Il reclutamento e il trasporto della fanteria da imbarcare sulle galere rappresentarono uno sforzo amministrativo e umano colossale”, scrive Barbero. Ma poi c’era anche concorrenza tra le potenze alleate per cercare uomini da arruolare. I veneziani si lamentano per l’esaurimento delle risorse umane, si segnala la difficoltà di reclutare rematori.

La flotta turca si avvicina ai possedimenti veneziani.

Le galere turche erano libere di mirare al cuore del dominio veneziano, si voleva tentare un’operazione analoga a quella di Cipro? Si comincia con l’isola di Creta, lo scopo era anche di catturare schiavi da mettere ai remi sulle galere. Il Kapudan pascià riceve l’ordine dal sultano di attaccare la flotta cristiana e poiché questa non si fa vedere, i turchi spadroneggiano sulle coste adriatiche. Venezia fortifica il Lido e si pensa al peggio. Se non arrivano i turchi ci pensano i corsari, finora non ne abbiamo parlato, ma ci sono anche loro ad attaccare la Cristianità. Il più pericoloso è “il re di Algeri”, dove ci sono tanti schiavi cristiani, Uluc Ali (Occhialì) un rinnegato calabrese che lavora per il sultano. Le sue scorrerie in mare sono spiate sempre con apprensione. I turchi in Adriatico avevano l’ordine di impadronirsi il più possibile delle piazzeforti veneziane, come Dulcigno, Antivari, Budva. Alla fine anche Venezia si sente minacciata, si chiamarono alle armi anche 10.000 miliziani.

Tutti a Messina per preparare la battaglia.

Appuntamento delle navi cristiane nel porto di Messina, la città per quei giorni, diventa centro almeno del mondo Mediterraneo, dove si poteva trovare “una società multietnica e meticcia, – scrive Barbero – piena di gente che si muoveva, di emigrati e di profughi, di mercanti e di rinnegati che parlavano più lingue, e nei cui porti era entrata in uso addirittura una lingua artificiale e imbastardita con cui tutti più o meno si capivano”. A poco a poco arrivano a Messina le varie squadre navali del Colonna, Venier, si aspetta il comandante don Juan. Alla fine il 23 agosto tutte le galere arrivarono nel porto di Messina, compreso don Juan con la sua Real e 25 galere. “Riuscire a coordinare i movimenti di un’ottantina di galere – scrive Barbero – appartenenti a quattro amministrazioni diverse, e a caricare in diversi porti nove reggimenti reclutati tra Spagna, Italia e Germania, facendo alla fine convergere tutti quanti a Messina, non era affatto un’impresa da poco: e va ad onore dei burocrati di Filippo II il fatto che pur fra tanti ritardi alla fine ci stessero riuscendo”.

Naturalmente un così grande concentramento di uomini, di soldati di diversi Paesi: italiani, spagnoli, veneziani, toscani, porta inevitabilmente allo scoppio di risse, addirittura in taluni casi, si arriva all’omicidio di diversi soldati spagnoli. Non solo l’enorme numero di fanti imbarcati provocava anche problemi sanitari

Ma a Messina ci sono anche i gesuiti spagnoli per l’assistenza spirituale di tutti questi soldati, che cercano di motivarli spiritualmente allo spirito di crociata. Su questo aspetti il libro sottolinea l’impegno di Filippo II per “il benessere spirituale dei suoi soldati e marinai. Con don Juan viaggiava il suo confessore, un francescano, insieme ad alcuni frati, ma il re desiderava che sulle galere si vivesse cristianamente, e voleva sradicare i vizi della bestemmia e della sodomia; perciò provvide a nominare un inquisitore per la flotta, nella persona di don Hieronimo Manrique […]”. Il testo descrive anche il fermento di fede che era presente nella Spagna cristiana di allora e in tutto l’Occidente. Il giorno dopo dell’arrivo a Messina, don Juan convoca il Consiglio di guerra, con tutti i comandanti cristiani, non tutti avevano lo stesso entusiasmo di combattere come il giovane principe. Ai primi di settembre tutta la flotta che avrebbe combattuto a Lepanto era riunita anche se in ritardo, nel porto di Messina: 209 galere e 6 galeazze. Arrivò a Messina da Roma, anche il Nunzio apostolico, monsignor Odescalchi con una lettera personale del Papa Pio V.

I cristiani pronti a uscire da Messina, per andare in cerca del nemico. Anche se non tutti volevano la battaglia. Tuttavia, si preparava a salpare da Messina per raggiungere Corfù, la flotta più potente che si sia vista nel Mediterraneo. Don Juan segue i consigli del Duca d’Alba da Bruxelles, “Sappia Vostra eccellenza che i primi con cui dovrà combattere saranno i suoi stessi soldati […]”. La flotta cristiana della Lega Santa salpò il 16 settembre, parteciparono il Granducato di Toscana, il Ducato di Savoia, i Cavalieri di Malta, la Repubblica di Genova, lo stato pontificio, l’impero spagnolo, con i Regni di Napoli e di Sicilia, e la Repubblica di Venezia. Le navi fiancheggiarono la parte sud della costa Calabrese, ma non fecero molta strada, si fermarono alla Fossa di S. Giovanni, davanti a Messina. Il 19 erano a Capo Colonna, a Crotone c’erano radunati 600 fanti della milizia calabrese. Intanto sulla terraferma si pregava, le informazioni, le notizie sempre contrastanti si moltiplicavano, sulle posizione dei turchi, sulle navi corsare di Occhialì.

I comandanti cristiani ricevevano continuamente rapporti sui movimenti della flotta turca, ma anche i turchi ricevevano le informazioni su quella cristiana. Anche a Costantinopoli, si registravano reazioni contrastanti: intanto alla corte de la Porta, si pensava che una grande flotta come quella cristiana era stata allestita per qualche importante conquista territoriale, non per una battaglia navale. Peraltro, scrive Barbero, “all’epoca non erano stati elaborati i concetti di battaglia decisiva e di dominio del mare […]”. Anche i comandanti cristiani non avevano le idee ben chiare sul da farsi, qualcuno proponeva di attaccare questo porto o quell’isola. L’idea che una battaglia navale rappresentasse uno scopo importante e che avesse delle conseguenze strategiche superiori d’una qualsiasi conquista territoriale, ancora non era chiara nei due schieramenti. Forse don Juan, Venier, il Colonna, “sembrano averla comunque intuita e si comportarono di conseguenza”. Mentre né la Porta e i suoi comandanti a Lepanto l’hanno capito.

Ecco perché il sultano mise in allarme tutte le autorità costiere in vista della minaccia incombente della flotta cristiana. Nel 28° capitolo Barbero dà conto prima della battaglia, delle dispute, dei contrasti tra veneziani e genovesi. Si registravano continui incidenti, la convivenza sulle navi era difficile, tra spagnoli e veneziani. Addirittura ci fu un inizio di ammutinamento sulla Capitana, che il giovane principe ha dovuto sedare con la forza. L’impresa rischiava di fallire per colpa di Venier. Praticamente don Juan, svela Barbero, dovette mediare molto, fare degli sforzi enormi. Ebbe a dire che in quell’occasione ha dovuto vincere se stesso, ed è stato più faticoso che vincere i turchi.

La battaglia nelle acque di Lepanto. Il 29° e il 30° capitolo danno conto della battaglia tra i due schieramenti (nell’appendice si possono leggere i numeri della battaglia: il nome delle galere e del capitano; la composizione delle ciurme, degli equipaggi, la fanteria e l’artiglieria) Sulle galere s’innalzano gli stendardi, si prega, cappuccini e gesuiti con i crocifissi in mano, benedicevano ed esortavano, mentre i sacerdoti confessavano. Ma si suonava e si ballava; i cristiani liberano dai ferri i galeotti di cui ci si poteva fidare, per eventuali combattimenti. L’artiglieria apre il fuoco, e si vede subito che i cristiani ne hanno molta di più. Sul numero delle galere come sempre ci sono notizie incerte. Io avevo letto che la flotta turca del Kapudam pascià era più numerosa di quella cristiana. Barbero dalle sue fonti mi sembra che sostenga il contrario: nei giorni seguenti la battaglia cominciarono a circolare le cifre gonfiate per quanto riguarda la flotta turca.

In una recensione al libro lo storico Franco Cardini, osserva che Barbero non intende fare un “ossequio al solito trionfalismo” della ‘vittoria dell’Occidente’ ma serio e rigoroso richiamo alle forze concretamente in gioco – l’Impero ottomano, la Spagna asburgica, la Repubblica di San Marco che si contendevano l’egemonia mediterranea.” Una delle conclusioni cui giunge Barbero è che Lepanto non salvò l’Occidente. “Anche se avesse vinto – aggiunge Barbero – il kapudan Pascià avrebbe riguadagnato il porto e smobilitato la flotta.” Inoltre gli ammiragli della Lega erano sicuri di vincere, dato che non esisteva una superiorità ottomana sul mare. Si tratta di affermazioni ben documentate nel libro. E una tesi dello storico Alberto Leoni è quella di  “smitizzare” Lepanto per l’abuso che se ne fa”, non si può utilizzare la Storia come una mazza ferrata, in chiave anti islamica, in questo modo, il “passato non passi mai”.

Naturalmente non starò qui a descrivere il combattimento, potrei farlo in qualche altra occasione. Il danno provocato dal fuoco delle galeazze cristiane era enorme, ha causato tanti danni ai turchi. Qualcuno li ha paragonate a dei “castelli” in mare. I cristiani ottengono una vittoria schiacciante, del resto, la convinzione dello studioso torinese è che i cristiani non potevano che vincere, vista la loro superiorità, sia come uomini che come armamenti, quasi tutti i fanti cristiani avevano l’archibugio, mentre i turchi come arma principale avevano la spada e l’arco. Fin dal primo momento i comandanti cristiani si resero conto di aver ottenuto una vittoria straordinaria senza precedenti, tornano a casa, litigando per la spartizione del bottino. E anche sulle cifre dei morti, dei catturati, degli schiavi, le perdite, le notizie sono imprecise. I soliti Contarini, Facchinetti, Sereno, Caracciolo, Provana, forniscono dati contrastanti e frammentari. Intanto si torna a casa: i comandanti della Lega sapevano di sfidare le critiche dell’opinione pubblica. Meglio accontentarsi invece di proseguire per altre conquiste. E poi la flotta era a corto di viveri, ed aveva subito danni, c’erano i feriti, la stagione era molto avanzata.

 DOMENICO BONVEGNA

dbonvegna1@gmail.com