Quanti sono quelli che conoscono la Storia dell’Insorgenza del popolo italiano contro le truppe napoleoniche tra il 1792-1815? Molto pochi, soltanto gli specialisti o qualcuno che ha studiato la storia locale. Non capita la stessa cosa invece con la storia del Risorgimento (la Rivoluzione Italiana) o con la cosiddetta resistenza contro il nazi-fascismo nell’ultima guerra mondiale.
Perché è importante conoscere la storia dell’Insorgenza, viene spiegato nel recente testo pubblicato da Cristianità, “Scritti sulla Rivoluzione e sulla nazione 1972-2006”, di Giovanni Cantoni. Ideatore e fondatore di Alleanza Cattolica, Cantoni è stato tra l’altro un intellettuale di “razza”, un elaboratore di cultura, esploratore di filoni culturali, ma soprattutto ha avuto un gusto spiccato per la storia e un’attenzione particolare alla lezione dei più valenti storici e dei più grandi filosofi della storia, da Sant’Aurelio Agostino (354-430) a Gonzague de Reynold (1880-1970).
Nel III saggio (L‘Insorgenza come categoria storico-politica), Cantoni offre un’ampia lettura storica, sociologica e politica, dell’esteso fenomeno dell’Insorgenza dei popoli europei, a lungo eluso dalla storiografia contemporanea. “La lettura cantoniana – scrive Oscar Sanguinetti nella premessa – Stato Moderno e Insorgenza sono due realtà strettamente intrecciate, anzi due facce della stessa medaglia, una propulsiva, l’altra reattiva, l’una costruzione elitaria, l’altra, fenomeno schiettamente popolare”.
Prima ad approfondire alcuni fenomeni di insorgenze popolari, sarà utile ricordare le ragioni dell’oblio che hanno accompagnato per due secoli il fenomeno dell’Insorgenza in Italia. Secondo Cantoni ha avuto certamente una certa influenza la “malizia ideologica” di storici e di storiografi. Non solo, ma ha inciso molto anche in misura non trascurabile, il suo carattere localistico. E per questo si è dovuto tenere conto non solo di catalogare piccoli avvenimenti, ma poi di inserire questi fatti in una “rete”, di un modello ideale, che integri “piccolezza” dei fatti, carenza di protagonisti, con un protagonista particolare, certamente consistente, ma generico qual è il “popolo”. Pertanto l’attenzione pressoché unica del fenomeno Insorgenza viene dato secondo Cantoni o al triennio giacobino (1796-1799) o solamente alla Santa Fede e al cardinale Fabrizio Ruffo, “trascurando altri episodi, altre espressioni dello stesso fenomeno pur significative, ma d’inevitabile misura minore in quanto prodottesi in Kleinstaat, in piccole realtà statuali, comunque decisamente meno estese del Regno di Napoli”.
Invece, le opere che si occupano dell’intero fenomeno Insorgenza contro l’invasione francese degli eserciti napoleonici esistono, ma sono poche. Segnalo, tra l’altro, che è stato istituito anni fa un Istituto per la Storia delle Insorgenze. Un libro che sintetizza bene questo periodo storico è quello dello storico Massimo Viglione, “Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815”, (Città Nuova, 1999) “l’Insorgenza – scrive Viglione – coinvolse gradualmente tutta la Penisola italiana, compresa la Sardegna (in Sicilia i francesi non arrivarono mai) ed oltre, fino ai territori della Savoia e del Tirolo […]”. Inoltre, si svolse in una arco di tempo che supera nel suo insieme il quarto di secolo. Infine, secondo alcuni calcoli (purtroppo generici), gli insorti furono almeno 300.000 italiani, appartenenti a tutte le classi sociali, i morti furono almeno 100.000.
In tutti i territori, città, piccoli centri, occupati dall’esercito francese, accade la stessa cosa: vengono rapinate le casse degli Stati, le case dei ricchi e dei non ricchi, le chiese, i beni degli ospedali e dei Monti di Pietà. Spesso la Religione fu combattuta con profanazione delle cose religiose, senza dimenticare che un Papa è stato costretto all’esilio e un altro imprigionato. Numerosi e tragici furono gli episodi di crudeltà inaudita, le stragi, gli eccidi di massa, compiuti dai francesi contro gli insorgenti, né mancarono episodi di truce violenza degli stessi insorgenti contro i francesi e i giacobini italiani.
La caratteristica determinante dell’Insorgenza italiana fu la spontaneità delle insurrezioni popolari, come in Vandea e in Spagna. Tuttavia il lavoro di Viglione, “ha solo due semplici ‘pretese’: quella della divulgazione generale al pubblico dei non esperti, e quella di costituire una concreta occasione per gli esperti […]”, di riordinare e inquadrare l’intera questione, per future ricerche di approfondimento e spiegazione della insorgenza controrivoluzionaria italiana. Inoltre l’opera di Viglione intende documentare raccontando “tutta questa storia nella sua completezza, nella sua visione d’insieme, dall’inizio alla fine, fornendo un quadro generale completo (geograficamente e politicamente) dell’Insorgenza”. Rilevo una carenza nel testo: la mancanza di cartine geografiche dei territori dove si sono svolti i moti controrivoluzionari e aver trascurato di citare qualche testo importante sul tema.
Dopo un breve schema cronologico delle Insorgenze, Viglione suddivide i moti controrivoluzionari in quattro fasi fondamentali, naturalmente non prenderò in considerazione tutte le insorgenze, ne approfondirò qualcuna. Viglione inizia con “Le Insorgenze nel Regno di Sardegna e nella Repubblica di Genova”, dove sono protagoniste le “Masse cristiane” di Brandaluccioni, che raggiunto dall’esercito imperiale del generale russo Suvarow si attivò per liberare Torino. Seguono quelle nella Lombardia Asburgica, con le insurrezioni più conosciute di Pavia e Binasco. Poi quelle dei Ducati Emiliani (Modena, Reggio, Parma, Piacenza). Naturalmente ogni capitolo è corredato delle rispettive note bibliografiche.
Il capitolo V si occupa delle Insorgenze nella Repubblica di San Marco e le ‘Pasque Veronesi’”.
Una delle pagine più dolorose degli antichi Stati italiani è stata l’estinzione dell’antica e gloriosa Repubblica di S. Marco. I primi scontri in seguito all’arrivo dei francesi avvennero nelle vallate di Bergamo e Brescia. Il meccanismo utilizzato dagli invasori francesi era sempre lo stesso: “fomentare una rivoluzione giacobina interna, costringere l’autorità all’intervento armato per riportare l’ordine, quindi invadere con la scusa di rispondere alle richieste di aiuto dei democratici”. Ma le popolazioni bergamasche, delle vallate non accettarono il nuovo ordine, predicato perfino da alcuni preti. Furono abbattuti gli“alberi della libertà”, con le insegne di S. Marco e la croce sul petto, gli insorti furono sconfitti dall’esercito francese, a migliaia i morti.
A Verona si svolse una pagina di storia significativa e siamo alle cosiddette “Pasque Veronesi”. L’insurrezione contro l’esercito napoleonico avvenne tra il 16 e il 17 aprile 1797 (tra la domenica e il lunedì di Pasqua). A seguito di un manifesto non firmato affisso sui muri della città che incitava il popolo alla rivolta contro gli invasori. Dopo uno scontro tra veronesi e alcuni soldati francesi, il generale Balland diede ordine di cannoneggiare la città dalle fortezze, mentre i veronesi cominciarono a suonare le campane a martello (si usava sempre per chiamare a raccolta i combattenti) in migliaia i veronesi si riversarono nelle strade e cominciarono a cercare i giacobini e soldati francesi, che non si aspettavano tanta ira e coraggio. I francesi, “sorpresi e spaventati, cercarono rifugio nelle fortezze, ma quelli che non facevano in tempo ad entrare venivano trucidati […]”. Un centinaio di francesi furono uccisi.
Tra una trattativa e l’altra i combattimenti continuarono, finché gli eserciti francesi si rafforzarono e marciarono su Verona, che fu bombardata, di nuovo i veronesi cercarono di trattare, attraverso i delegati, rappresentanti del popolo. Ma questi alla fine fuggirono e lasciarono i veronesi senza capi. Il popolo si arrese così i francesi occuparono la città, tutti i cittadini furono disarmati, con la promessa di avere salva la vita. Il 16 maggio Napoleone emanava le condizioni punitive che furono pesantissime. Confisca di beni, pagamento di 170.000 zecchini di contributo. Opere d’arte sequestrate nelle Chiese, nei musei e tanto altro. Alla fine furono fucilati senza pietà diversi nobili, tra i quali, Augusto Verità e Francesco degli Emilei, l’avvocato Giovan Battista Malenza, sacerdoti e anche gente non aristocratica. Lo storico Lemmi commenta la repressione napoleonica: “i repubblicani francesi non riconoscevano al popolo degli altri paesi quei diritti di libertà che avevano essi rivendicato al popolo di Parigi”.
Intanto Napoleone sfruttò i fatti di Verona per attaccare i veneziani, così il “liberatore d’Italia”, dichiarò guerra alla Serenissima, che era una Repubblica. Il testo di Viglione segnala che i governanti veneziani hanno giocato al ribasso, ma non sono riusciti a salvare la Repubblica che il 12 maggio 1797, dopo dieci secoli muore per sempre. Il Gran Consiglio si radunò per l’ultima volta e il Doge Manin invita tutti a salvare la vita e si dimettono cercando di sfuggire alla folla che non aveva capito cosa stava succedendo.
A questo proposito è utile riportare le puntuali parole di Giovanni Cantoni: “Quando i reggitori della Repubblica di San Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alato, e supplicavano la pace, i contadini del Veronese gridavano Viva San Marco! E morivano per esso in quelle Pasque che rinnovarono i Vespri”. (Cfr. “L’Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione”, Saggio introduttivo al testo di P.C. De Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, 1977, Cristianità) Poi Cantoni continua con le altre rivolte che hanno visto protagonisti i minores dei popoli italiani, mentre i loro capi abbandonavano i palazzi.
Furono circa 30.000 i veneziani che al grido di “Viva San Marco!”, si unirono ai militari croati e dalmati e iniziarono la caccia all’uomo contro i giacobini, ma ben presto i francesi occuparono Venezia e così la rivolta fu repressa.
Un’altra pagina straordinaria di insorgenza popolare contro l’invasore francese è quella in Tirolo, guidata dall’albergatore, l’oste, Andreas Hofer. Molto è stato scritto su questo personaggio, probabilmente quello più conosciuto tra le varie insorgenze.
Seguendo lo storico Carlo Botta, si può scrivere che, “la controrivoluzione tirolese è riconosciuta come l’esperienza più nobile ed eroica di tutta la storia delle insorgenze, in nessun altro come Andreas Hofer possono essere riconosciuti quei valori di sincero attaccamento alla religione e di fedeltà ai sovrani e alle tradizioni che sono quasi sempre stati alla base di ogni rivolta controrivoluzionaria”. Certamente Hofer incarna un ideale politico e religioso, che è diventato il simbolo stesso di quegli eventi. Con Hofer combatterono 18.000 trentini, dei quali 4.000 sno morti. Il 15 agosto 1809 venne designato, “Comandante Superiore per il Tirolo”, e assunse anche il governatorato, insediandosi nell’Hofburg di Innsbruck, in nome e per conto dell’imperatore d’Austria Francesco II. Ma i francesi ritornarono, Napoleone inviò due eserciti, per chiudere definitivamente la questione. “I francesi invadendo tutte le terre tirolesi, trentine e dolomitiche, lasciavano ovunque il loro segno con orribili stragi, impiccagioni e incendi di villaggi. A Bolzano massacrarono 300 donne che erano insorte armi in pugno, a Tione di Trento in una sola giornata vennero fucilati 52 uomini”. I francesi con la cavalleria a settembre, intorno a Trento e nella città, massacrarono oltre 500 insorgenti.
Nel frattempo scrive Viglione il Tirolo era nella morsa della vendetta dei francesi, affidata al generale Broussier. Alla fine Hofer tradito da un suo compagno, il generale Baraguay d’Illiers mandò 1470 soldati ad arrestarlo, uno spropositato numero di armati per catturare una sola persona. Il 18 gennaio 1810 fu preso e il 20 febbraio fucilato a Mantova. Prima di morire aveva gridato ai suoi: “Il Tirolo tornerà sotto Francesco”.
La figura di Andreas Hofer, a volte è stata strumentalizzata, scrive Viglione nelle note. Strumentalizzata dagli stessi tirolesi, che fraintendono il loro eroe, “presentandolo come un “campione dell’autonomismo”, finendo con lo svilire il significato reale dell’operato dell’albergatore della Val Passiria”. Hofer non cercava l’indipendenza dall’Italia, ma dalla Francia, o meglio dalla Baviera napoleonica. Va chiarito secondo Viglione che “la sua guerra non era verso il popolo italiano, o verso il popolo francese, in ‘quanto popoli’, ma contro la Rivoluzione come guerra alla religione e all’Impero cattolico austriaco, e della fede cattolica, anche se lo ha fatto da vero tirolese e con tutto l’amore che poteva provare per quella incantevole sua terra”. Andreas Hofer, come ha scritto F. M. Agnoli, fu un eroe cristiano. Infatti è interessante quello che scrive Cantoni su questi uomini e donne che hanno reagito più o meno confusamente. “In tutta Europa il popolo minuto – il popolo dei minores o, almeno, una parte non irrilevante di esso – consuetamente più incline a resistere che a reagire, intuisce che, con le guerre d’invasione e con la conflittualità culturale e sociale, i rivoluzionari non intendono impadronirsi del potere per semplicemente proporsi come i nuovi titolari di esso e i nuovi percettori di tributi, ma se ne vogliono servire per ‘cambiare la vita’, per ‘rifare il mondo’, con mosse precorritrici di ogni totalitarismo […]”. A questo proposito Cantoni propone l’esempio, fra il primo eccidio di massa (genocidio) operato dai rivoluzionari bleu, i repubblicani francesi in Vandea, e quelli utilizzati nel secolo XX dai rivoluzionari “rossi” o “bruni”, cioè dai socialcomunisti russi e dai nazionalsocialisti tedeschi.
DOMENICO BONVEGNA
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