di ANDREA FILLORAMO
Cerco di rendere noto e di commentare quanto manifestatomi in una lunga email, ricevuta qualche tempo fa, da parte di Paolo S…. un vecchio mio collega, che non sentivo da molto tempo, addolorato per quanto successo al padre Vittorio, che è stato in terapia intensiva per 42 giorni ed è morto a causa del Covid 19.
L’esperienza del dolore l’ha fatto avvicinare – come egli mi scrive – alla fede, dalla quale si era allontanato negli anni d’università. Rivesto, quindi, dopo parecchi anni, per potere più facilmente comunicare, i panni di docente di Storia e filosofia nei Licei facendo strategicamente l’analisi testuale di alcuni stralci che riporto in grassetto dell’e-mail, ritenendoli significativi. Essi sono stati magari estrapolati dal contesto, ma sono rispondenti a quello che considero l’’itinerario psicologico e spirituale seguito dall’ex collega, la cui conoscenza può essere utile a tutti i lettori.
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“Mio padre è morto di Covid nei primi tempi della pandemia. Se ci fosse stato il vaccino che adesso c’è, sarebbe ancora con noi”. Queste poche parole pronunciate con serenità e determinazione dall’autore dell’e-mail, le ritroviamo nelle prime righe. Sono indubbiamente parole sentite e sofferte, che colpiscono anche per la pacatezza con la quale sono state sicuramente pronunciate prima di essere state scritte, che contrastano con la violenza verbale dei social e con la distorsione delle informazioni che purtroppo spesso ritroviamo nelle comunicazioni di chi invece sarebbe deputato a informare correttamente i cittadini. Quando si verifica la morte di una figura significativa, come in questo caso del padre, l’assenza fisica crea una intensa sensazione di mancanza e un’acuta sofferenza sia psicologica che fisica, che si può esprimere con la chiusura psichica, accompagnata dal disperato desiderio di non andare più avanti, di non vivere più senza colui che era così importante da rappresentare non solo un affetto, ma anche un punto di riferimento e di appoggio, ma, in questo caso, non è stato così. Di fronte alla morte dobbiamo confrontarci con qualcosa di troppo grande e sul quale non abbiamo nessun potere e alcuna possibilità di agire, specie quando la morte è stata data da un virus nascosto, difficile a debellare. Nei nostri pensieri si affacciano dubbi, incertezze, ansie; le condizioni iniziali subiscono cambiamenti e dobbiamo riorganizzare la nostra vita pieni di timore. Così credo abbia fatto, da quel che intuisco il mittente dell’e-mail.
“Certo che la pandemia ha sconvolto la nostra vita”. Questa affermazione, contenuta nell’e-mail, sembra un paradosso ma non lo è. La pandemia ha messo radicalmente in discussione sicuramente costruttiva, la gestione della nostra vita, chiamandoci a ripensarla in profondità, nella prospettiva di nuovi paradigmi all’insegna dell’impegno, della corresponsabilità e solidarietà. Ci ha insegnato innanzitutto il senso della precarietà del nostro vivere. Ricordo dei versi di Giuseppe Ungaretti che possono diventare degli auspici per noi che aspettiamo la fine della pandemia, che qualcuno ha paragonato a una guerra: “Dopo tanta nebbia/ ad una ad una/ si svelano le stelle. /Respiro il fresco/ che mi lascia il colore del cielo./ Mi riconosco immagine passeggera /presa in un giro immortale”. Per evidenziare l’analogia fra una guerra e la pandemia rammentiamo che Ungaretti, arruolatosi volontario nella Prima Guerra Mondiale, in quella che si pensava essere una guerra lampo, sperimentò subito sulla propria pelle l’amarezza, il senso della precarietà umana e un vero e proprio spossamento materiale e spirituale. La vita in trincea provocò in lui un disperato attaccamento alla vita e, perennemente a contatto con la morte, un senso di solidarietà umana e fratellanza sempre crescenti.
“Vivevamo prima in una sorta di delirio di onnipotenza”. È questa un’affermazione di grande importanza, contenuta nell’e-mail ed era e per tanti è ancora così, proprio così. Oggi se da un lato poniamo l’uomo come unico autore del suo destino, dall’altro egli finisce con lo sgretolare la ricchezza ontologica della persona. La pretesa dell’uomo di essere unico arbitro della sua vita lo fa precipitare di fatto in una condizione di grande precarietà esistenziale. La cultura dell’efficientismo produttivo, oggi tanto diffusa, esalta i soggetti forti, belli, capaci, mentre spiazza quelli più deboli e inefficienti, i quali si sentono smarriti in una competizione che li vede perdenti in partenza. La cultura dell’edonismo utilitaristico, anch’essa imperante nel nostro tempo, suggerisce un continuo esaudimento dei desideri, ma porta di fatto ad una grave forma di insoddisfazione esistenziale, perché, una volta esauditi alcuni desideri, se ne presentano inevitabilmente altri da soddisfare, perpetuando così una catena ininterrotta di bisogni spesso fittizi, che a lungo andare sfianca e deprime.
“Difficile accettare, quindi, la fragilità della vita”. Così continua a scrivermi il mio amico, costretto sicuramente a pensare dopo aver fatto l’esperienza di un dolore lancinante di vedere il padre soffrire e poi non poterlo neppure vederlo spegnersi. La verità è che perdere la capacità di accettare le fragilità non ci aiuta assolutamente a crescere. L’uomo, infatti, matura in modo particolare attraverso l’esperienza del dolore, che lo aiuta a fare i conti con se stesso e con i suoi limiti, ma anche ad aprirsi a relazioni con gli altri. Fra le relazioni interpersonali più ricche ci sono, infatti, quelle coltivate nell’esperienza del dolore. Questo ci porta a dire che non è una cosa salutare smarrire la conoscenza del nostro limite, perché questo ci porta fuori strada, anzi spesso ci conduce ad un vicolo cieco. Dal punto di vista squisitamente etico su questa strada si arriva ad eliminare la tensione tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare per sostituirla con quella tra ciò che si riesce e ciò che non si riesce a fare. Il che significa che ogni cosa viene misurata col metro del successo e dell’efficienza. Ma questo sfocia nel risultato che molti si sentono inadeguati e perdenti. Sono tanti, infatti, quelli che oggi sperimentano un profondo senso di inadeguatezza. È probabile che è questo insieme di fattori a provocare la crescita esponenziale di patologie depressive.
“Aumenta oggi, durante la pandemia l’uso e l’abuso di psicofarmaci”. Al di là della semplice constatazione fatta la mio amico, occorre dire che l’uso, anzi l’abuso di psicofarmaci, aumentato tanto durante la pandemia, nasconde sempre il tentativo di narcotizzare la propria psiche, riducendo il più possibile la percezione del vuoto esistenziale. Tale situazione o stato, il mio amico, per un certo periodo – come mi accenna – ha rischiato di viverla. Se non è stato così egli è giunto a capire che questa non era la strada migliore da praticare. Qual è allora la possibile via d’uscita? Quella di riassaporare il senso del nostro limite, della nostra strutturale fragilità e finitezza. Non è bene fuggire terrorizzati di fronte alla nostra precarietà esistenziale, magari rifugiandosi nell’iperattività stordente, che rappresenta solo un malcelato tentativo di fuga. È bene invece guardare in faccia i nostri limiti e i nostri insuccessi. Li chiamiamo “insuccessi” e non “fallimenti”, perché dobbiamo credere fortemente nella capacità dell’uomo di elaborare il proprio soffrire in una chiave costruttiva.
“Ho recuperato la fede che mi è stata di grande aiuto”. Non è difficile capire che la fede alla quale è pervenuto il mio amico, non deve essere e sicuramente non è un narcotico dell’esistenza, vissuta per eludere i problemi senza avere il coraggio di affrontarli, rifugiandosi in atteggiamenti che fanno fuggire dalla realtà. Questa non è la fede, ma un’evasione in un mondo irreale che riesce solo a tamponare i problemi del disagio esistenziale, ma non a risolverli. La fede non è nemmeno la coltivazione presuntuosa di certezze, come se il credere in Dio preservasse dai dubbi, dagli interrogativi, dalle oscurità. La fede non è la piena luce, non è sapere tutto o capire tutto, ma è avere abbastanza luce per superare i momenti di oscurità.
“Non è facile per me, adesso, fare una professione di fede cattolica ma sono tornato ad essere cristiano (…) forse, però cristiano lo sono stato sempre”. L’essere cristiani è una scelta di fede che non si eredita, né è solo un dato culturale, come nel breve saggio scritto da Benedetto Croce: “Perché non possiamo non dirci “cristiani”, nel quale l’autore sostiene che il Cristianesimo ha compiuto una rivoluzione «che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità” che per merito di quella rivoluzione non può non dirsi “cristiana”. L’essere cristiani, secondo lo spirito e la parola di Cristo è una scelta di fede per i cattolici.
“Ora cerco di scoprire la verità tutta intera……” C’è sempre posto, nell’itinerario di fede del mio amico e di tutti, per la ricerca e per l’approfondimento della verità non solo quella filosofica. Non pensiamo alla fede come la pretesa di scalare con le sole proprie forze l’altezza che conduce a Dio. In particolare la fede cristiana non ritiene che sia l’uomo a salire fino a Dio, ma crede nell’esatto contrario: è Dio che scende al livello dell’uomo, facendosi egli stesso uomo, ossia assumendo la carnalità, la fragilità strutturale della nostra esistenza. Il Dio di Gesù Cristo è “l’uomo dei dolori che ben conosce il patire”, venuto a compatire le nostre infermità e ad assumerle su di sé nel sacrificio della Croce. L’esistenza umana è indubbiamente faticosa, dura, difficile, ma anche affascinante ed impegnativa. Dio la condivide con noi, decidendo di non starsene nell’alto dei cieli a guardare indifferente ciò che accade sulla terra, ma di immergersi egli stesso nei drammi della storia, accettando di soffrire con noi e per noi. Possiamo dire che, in Cristo, Dio soffre umanamente perché l’uomo possa vivere divinamente. La sofferenza di Dio, infatti, è finalizzata alla felicità eterna dell’uomo.
“Dopo tanti anni ancora è forte l’amicizia fra noi”. Il richiamo all’amicizia è senz’altro il modo migliore per concludere l’e-mail che poteva anche essere la premessa. Sono passati molti anni da quando in sala insegnanti, dopo aver preso il caffè si parlava e non solo di questioni scolastiche tanto che talvolta si ritardava a rientrare in classe ricevendo anche i rimbrotti della Preside. L’amicizia – lo sappiamo – è il legame sociale e affettivo più nobile. In un’epoca segnata dalla crisi e dalla banalizzazione dei sentimenti, l’amicizia, rimane il sentimento che non conosce sfumature di comodo, che ci rivela il potere che rivestono nella nostra vita le relazioni che non giudicano e non ricattano, ma chiedono complicità e gratuità. Sono veramente convinto con Lois Wyse, autore e editorialista americano., che “un buon amico è per tutta la vita un legame con il passato, una strada per il futuro, la chiave per la salute mentale in un mondo pieno di matti”.