Sono molte le suggestioni che offre la lettura di Neuroscienze della narrazione (ed. Hoepli). Se le organizzazioni produttive si dimostrassero “permeabili” rispetto ai messaggi e alle strategie di innovazione suggerite da Marco La Rosa, blogger e divulgatore scientifico, attivo e originale frequentatore dei sentieri della comunicazione digitale, probabilmente ne potrebbero trarre un significativo vantaggio. Il metodo usato dallo scrittore è quello della “complessità”, impossibile pensare di attuare una reductio ad unum, perché su determinati argomenti non può esistere una separazione delle discipline.
Il crocevia delle problematiche connesse alla transizione digitale non è appannaggio di alcuni, è l’intera società nel suo complesso che è in gioco. Esiste una dialettica irrisolvibile tra “innatisti” ed “empiristi”. Nel nostro DNA sono contenuti alcuni indizi decisivi del percorso futuro, ma non c’è dubbio che l’esperienza e il confronto ambientale e relazionale intervengono a completare il profilo del soggetto. Quello che preme sottolineare, mentre assistiamo all’esplosione dell’Intelligenza generativa, è il risorgere di posizioni pro e anti Cartesio come scrive Antonio R. Damasio ne L’Errore di Cartesio: «Non esiste una ragione pura scevra da sentimenti, le emozioni non sono degli intrusi dentro le mura della ragione». Sarebbe importante che questa consapevolezza entrasse nelle menti di chi per mestiere fa business e che sta ripensando l’impresa tenendo conto del mutamento economico e ambientale che segna la contemporaneità. La narrazione, il bisogno di creare storie nasce proprio dal divenire socio-tecnologico che illumina la nostra epoca. Scrivere, narrare può essere una terapia per guardare al futuro con fiducia? Ne parliamo con l’autore.
Narrazione e neuroscienze: in che cosa risiede l’importanza di questo connubio nella società digitale?
Le neuroscienze sono l’unico contributo che può aiutarci a comprendere il potere che esercitano le narrazioni su di noi; quindi, una loro conoscenza di base può aiutarci a trasformare le storie da condizionamento a terapia, e a farci meno influenzare da narratori, imbonitori e persuasori di ogni sorta.
La narrazione è una terapia, come lei diceva in una recente intervista. Sembra un controsenso la ricerca della narrazione in un universo che tende ad asciugare il linguaggio, spesso compresso nelle strettoie di un twitter. Come si spiega questo bisogno di rifondare un percorso di senso sul libero flusso del linguaggio narrato?
Vorrei precisare che la narrazione può rappresentare una terapia efficace in un contesto linguistico ricco e strutturato. Proprio le neuroscienze hanno scoperto il valore e la cifra, in termini di benessere, di discipline, quali la letteratura e, più in generale, i saperi umanistici. L’impoverimento linguistico e la riduzione dell’universo cogitante delle persone, rischiano di distruggere le narrazioni, impoverendo le menti di chi subisce questo processo di “espoliazione” delle facoltà superiori ‒ mi si passi il termine. Tutto questo apre la strada a riflessioni assai ampie, ad esempio l’interesse delle collettività a difendere la qualità, la ricchezza, la diversità e il pluralismo delle narrazioni che attraversano la società. L’educazione, la cultura, sono fattori decisivi, per preservare le capacità mentali e cognitive di tutti i componenti del corpo collettivo.
Intelligenze generative e narrazione, su questo aspetto è giustamente puntata l’attenzione di molti. Verso quale direzione stiamo andando?
Probabilmente, stiamo andando verso una direzione di maggior standardizzazione; basti analizzare le immagini create con l’Intelligenza artificiale, che trovo piuttosto simili e uniformate. Non bisognerebbe stupirsi, avviene questo da quando esiste l’industria: la standardizzazione c’è stata anche con la nascita della produzione di massa, e ha ispirato artisti come Andy Wharol e correnti come la “pop art”. Difficile dire come gli umani reagiranno: l’Intelligenza generativa amplifica molte possibilità, ci sono aspetti positivi che non vanno sottovalutati. Non bisogna mai stancarsi di ribadirlo: è una componente neutra come tutte le tecnologie, dipende da chi la utilizza. Le persone con una buona cultura e senso critico sapranno coglierne le possibilità. Il rischio più grande rimane quello di una profonda spaccatura della società, tra chi sa cogliere i vantaggi morali e materiali dell’innovazione e chi rimane ai margini del progresso, che subisce e si impoverisce. Il vero alert di questo cambiamento d’epoca si chiama infatti “sperequazione”.
L’economia dei dati cresce a ritmi vertiginosi. Il “dato è un asset sociale” come ha scritto Michele Mezza; a queste condizioni non le pare che diventa utopistica la tutela di quello che Rodotà definiva “il corpo elettronico”?
I pericoli dell’economia dei dati sono ormai ben conosciuti e si riassumono nel rischio del “grande fratello”. Sul fronte della sicurezza, che rimane una delle grandi questioni del nostro tempo, Pierguido Iezzi (una delle personalità intervistate che arricchiscono il volume, n.d.r) sottolinea la crescita di nuovi profili di rischio. Pensiamo all’identità digitale, video costruiti con l’AI in cui vengono pronunciate frasi mai proferite dai protagonisti. Ingegneria sociale praticata sotto le mentite spoglie della truffa, perpetrata con metodi raffinati, rispetto a cui bisogna rispondere con politiche e strategie di cyber security adeguate. Ha ragione Iezzi nel formulare un invito preciso a tutti gli utenti della Rete. «Bisogna partecipare attivamente alla edificazione di un sistema digitale condiviso. Segnalare contenuti sospetti, sostenere il giornalismo di qualità, e partecipare a iniziative di alfabetizzazione mediatica contribuendo a combattere le manipolazioni e la cultura dell’informazione responsabile». Sottoscrivo queste considerazioni che dovremmo, tutti, fare nostre.
Rimaniamo sul fronte della awareness, esercizio che tutti dovremmo fare. Verità/falsità, difficile comprendere dove si colloca il limite tra queste categorie. Ci si può preparare per non cadere nel “tranello”?
Bella domanda! Il problema, incominciano a porselo sia gli psicologi che i filosofi, perché nel nuovo contesto diventa sempre più difficile distinguere reale e virtuale, vero e falso, realtà e fantasia. Non ci sono soluzioni, l’unica cosa che possiamo fare è acquisire coscienza, migliorare la nostra capacità di giudizio critico, migliorare il fronte delle competenze, perché solo la conoscenza può scongiurare le paure
In conclusione, voglio richiamare un’affermazione del Garante della Privacy, Pasquale Stanzione, nel corso dell’ultima giornata europea della privacy: «Quello che è avvenuto nel campo delle neuroscienze, dove si è realizzato un decoder “semantico” dell’attività neurale a partire dai dati forniti da una risonanza magnetica funzionale, combinando scansione cerebrale e database di modelli linguistici, come quelli usati da Chat Gpt, non può non far pensare. Bisogna ricordarsi che la persona non è un archivio liberamente accessibile, altrimenti sarà la condizione dell’“uomo di vetro” a prevalere, senza difese, preda dell’autismo digitale, vittima di una forma atroce di solitudine, vissuta e consumata nello “specchio” deformante della Rete». La solitudine digitale è una dimensione dell’esistere con cui dovremo fare i conti?
Le preoccupazioni del Garante sono altamente condivisibili. Temo che non siamo assolutamente lontani da quest’uomo di vetro, considerato come un database pubblicamente accessibile e quindi spogliato della sua riservatezza. Ma, del resto, ciò era implicito fin dalla nascita della Rete e dalla possibilità che essa offre di raccogliere la “vita” delle persone, dai gusti ai comportamenti, persino all’immaginario, fino ad entrare nel foro, che credevamo intangibile, della coscienza.
Massimiliano Cannata – leurispes.it