Louise Elisabeth Glück ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2020. La giuria ha così motivato il riconoscimento: “per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Nata a New York nel 1943, in una famiglia di ebrei di origine ungherese, Louise Glück è autrice di dodici raccolte di poesia e alcuni saggi brevi. È docente di poesia all’Università di Yale. Autrice poco nota al di fuori degli Stati Uniti, la Glück è ora salita impetuosamente alla ribalta e i suoi libri sono divenuti introvabili in pochi giorni. Su eBay hanno raggiunto prezzi esorbitanti, fino a dieci volte quello di copertina. Vi è grande curiosità, non solo fra gli studiosi e i lettori di poesia, nei confronti di questa poetessa dalla scrittura chiara, asciutta, comprensibile a tutti. Non è però universale il plauso tributato alla nuova regina della poesia internazionale. Vi è chi considera la sua opera troppo generica, lontana da temi civili come i mutamenti climatici, le ingiustizie sociali, il razzismo, le guerre o i fenomeni migratori. Se è vero che la poetessa non ha trascurato le tematiche caratteristiche della poesia civile, risulta evidente tuttavia come abbia privilegiato gli aspetti più intimi e drammatici della vita. Il suo canto terso e preciso è sempre in osmosi con il mondo naturale, scenario delle sue brevi leggende, che conducono in America – sulle orme di Emily Dickinson e Walt Whitman – gli dei dell’Olimpo, i semidei e gli eroi antichi. Figure archetipiche che la Glück conosce molto bene perché sono le stelle del suo cielo lirico, i punti di riferimento luminosi e immutabili che la aiutano a orientarsi nel suo cammino artistico. Prima del Nobel, la Glück aveva già ricevuto alcuni dei più importanti riconoscimenti, fra cui il Premio Pulitzer nel 1993 (per Wild Iris), il National Book Award nel 2014 (per Faithful and Virtuous Night) e l’onorificenza di Poet Laureate nel 2003. Louise Glück si avvicinò alla poesia in tenerissima età, evidenziando un talento precoce nella scrittura in versi e riempiendo così di orgoglio il padre Daniel, imprenditore di successo che aveva tuttavia sognato di scrivere best seller. Anche la madre, Beatrice, laureata in francese, incoraggiò sempre la giovanissima Louise a scrivere poesia. Beatrice amava la poesia classica, da Saffo ad Anacreonte, da Ibico a Callimaco ed erano le loro brevi poesie che leggeva alla piccola, la quale la ascoltava incantata dal miracolo delle parole che si trasformavano in musica. Semplicità e nitidezza, ecco le sorgenti dell’ispirazione, ecco l’insegnamento delle Muse. Successivamente la giovane si avvicinò anche alla poesia americana, a Elizabeth Bishop, ma soprattutto a Emily Dickinson, i cui canti ebbero su di lei un effetto folgorante. La bellezza non ha causa: esiste. / Inseguila e si dilegua. / Non inseguirla e rimane. La Dickinson fu senza dubbio la musa terrena di Louise Glück, dietro la cui austerità vi è la dignità senza tempo del mito; dietro i cui dubbi vi è la continua esperienza del dolore, della precarietà e della perdita; dietro la cui rete di rimembranze vi è ancora l’itinerario di una navigazione mitica, alla ricerca di un’isola sicura nella tempesta del vivere. Durante l’adolescenza, la Glück manifestò importanti disturbi d’ansia, che culminarono in anoressia nervosa e depressione. Nel corso dell’ultimo anno alla George W. Hewlett High School di Hewlett, New York, entrò in analisi, un percorso che durò sette anni. “L’analisi è stata una delle esperienze più importanti della mia vita,” affermò in seguito la poetessa, che attribuiva alla terapia non solo il merito di averle salvato la vita, ma anche quello di averle ampliato gli orizzonti del pensiero. Durante la malattia anoressica infatti, si dedicava principalmente e non senza nevrosi, a inseguire la forma. Il procedimento dell’analisi, al contrario, le si rivelava come una strada in direzione opposta, in cui è la mente a condurre l’ispirazione secondo principi astratti e immutevoli, consentendole di esplorare nuovi modi di indagare le cose attraverso lo strumento poetico. In quegli anni perfezionò la sua arte con i poeti Léonie Adams e Stanley Kunitz, conosciuti alla Columbia University. Contemporaneamente rivolse la sua attenzione all’Obiettivismo e in particolare all’opera di George Oppen, studiando e analizzando i versi dei poeti che avevano ispirato il movimento: Ezra Pound e William Carlos Williams. Dopo aver abbandonato la Columbia, senza laurearsi, e dopo un matrimonio infelice, seguito da un divorzio repentino, la poetessa pubblicò le sue prime raccolte di poesia, Firstborn (1968) e The House on Marshland (1975). Quest’ultima riscosse notevole attenzione nell’ambiente letterario. La critica Rosanna Warren scrisse, a proposito della raccolta, che “la caratteristica di Louise Glück è quella di distanziare l’io lirico quale soggetto e contemporaneamente oggetto di attenzione, imponendo una disciplina di distacco nei confronti del materiale impellentemente soggettivo”. Dopo un nuovo matrimonio e dopo aver dato alla luce un figlio, Noah, Louise pubblicò nel 1980 Descending Figure. Sempre quell’anno un incendio devastò la sua casa nel Vermont, distruggendo tutti i suoi beni. Un dramma che accrebbe in lei il senso di impermanenza delle cose nel mondo e la necessità di affidarsi a qualcosa di durevole e fisso come il mito. Nacque così la raccolta The Triumph of Achilles (1985), lodata dalla critica per la sua chiarezza, la sua purezza, il suo splendore atemporale. Qualità che non abbandoneranno più la poesia della Glück. La lirica Mock Orange, che successivamente rientrerà in numerose antologie e nel programma di decine di corsi universitari, venne accolta dal movimento femminista come un vero e proprio inno civile. Lo stesso anno morì il padre di Louise, Daniel. Una perdita che le procurò un dolore insanabile, riversato nella raccolta Ararat (1990), caratterizzata da versi autobiografici che rendono universali i sentimenti di perdita, nostalgia e dolore. Due anni dopo la poetessa pubblicò The Wild Iris, con cui vinse il Premio Pulitzer. È forse il suo capolavoro ed è la silloge in cui si mostra con più evidenza la discendenza dell’arte di Louise Glück da quella di Emily Dickinson. Come la “musa di Amherst”, la poetessa newyorkese sostituisce alle figure divine della mitologia classica la simbologia legata ai fiori selvatici, che rappresentano la vita umana nel suo germogliare, fiorire e appassire. La Dickinson curava con devozione il giardino di casa ed è lo stesso giardino mitico in cui Louise cerca la propria ispirazione. Tradurre le poesie di Wild Iris riconduce alle figure retoriche della Dickinson, alla sua voce, al suo canto che è sì inimitabile, ma contemporaneamente fonte di ispirazione, da tanti anni, per i poeti. I temi sono gli stessi: la natura selvatica e quella umana, la brevità della vita, l’incombenza del dolore e della perdita, l’ineluttabilità della morte. Ogni ora del giorno, una luce diversa dell’esistenza, fino al tramonto. Ecco una poesia della Dickinson che proviene dalla stessa fonte lirica che nutre il pensiero della Glück:
L’atroce istante che si verifica
E assume il suo posto fondamentale
Il biglietto – la circostanza – l’amico –
Lo spettro di solidità
La cui sostanza è sabbia –
Dopo aver dato alle stampe nel 1994 i suoi saggi sulla poesia, Louise Glück ha pubblicato le raccolte Meadowlands (1996), Vita Nova (1999) e The Seven Ages (2001). Nel 2003 è nominata Poet Laureate degli Stati Uniti. L’anno successivo pubblica October, un poema che manifesta il suo sgomento per gli attacchi terroristici dell’11 settembre. La forma scelta è quella del mito, il suo scudo letterario contro il sentimento di disperazione. Seguono le raccolte Averno (2006), A Village Life (2009), l’antologia Poems: 1962-2012 (2012) e Faithful and Virtuous Night (2014). Per quest’ultimo, riceve il prestigioso National Book Award per la poesia. Ed ecco, nel 2020, un anno di particolare ansia e precarietà per l’intero pianeta, il Premio Nobel per la Letteratura. Con un po’ di romanticismo, uscendo dal coro di chi ritiene che i premi Nobel siano assegnati solo in base a giochi di potere e interessi particolari, potremmo dire che l’Accademia Svedese l’ha preferita a tanti autorevoli candidati proprio perché i suoi versi, i suoi fiori mostrano la nostra vulnerabilità, la nostra insicurezza di fronte a ciò che ci è ignoto e ci sovrasta. Il nostro bisogno di eroi che ci guidino durante il percorso attraverso luoghi e mari dominati dal Mito, perché in loro assenza, ci attenderebbe solo un calmo, freddo annientamento.
Inizia a nevicare; la finzione della vita si conclude.
Ora è bianca la terra; i campi splendono quando nasce la luna.
Mi siedo alla finestra della stanza da letto e guardo la neve che cade.
La terra è come uno specchio:
calma uguale alla calma, distacco al distacco.
Ciò che vive, vive sottoterra.
Ciò che muore, muore senza combattere.
L’iris selvatico
In fondo al mio dolore
c’era una porta.
Ascoltami: colei che chiami morte,
io la ricordo.
Rumori in alto, fronde del pino che si muovono.
Poi nulla. Il sole pallido
sussultò sul manto asciutto.
È terribile sopravvivere
come coscienza
sepolti nella terra oscura.
Quindi tutto finì: ciò che paventi, essere
un’anima e non riuscire
a parlare, finì di colpo; la terra dura
si incurvò un poco. E quelli che sembravano
uccelli si infilzarono nelle siepi basse.
Tu che non hai memoria
di passaggi dall’altro mondo,
ti dico che potrei parlare ancora: ogni cosa
ritorna dall’oblio, ritorna
per trovare una voce:
dal centro della mia vita è uscita
una grande fontana, profonde
ombre blu sull’azzurro del mare.
Le migrazioni notturne
Questo è il momento in cui rivedi
le bacche rosse del sorbo montano
e nel cielo scuro
le migrazioni notturne degli uccelli.
Mi fa male pensare
che i morti non le vedranno;
queste cose che ci danno conforto
si dissolvono.
Cosa farà l’anima per consolarsi allora?
Mi dico che forse non le serviranno
tali piaceri;
forse solo non essere le basterà,
anche se è arduo da immaginare.
Il passato
Una piccola luce si accende in cielo,
improvvisamente tra
due rami di pino, i loro aghi sottili
ora sono incisi sulla superficie radiante
e soprattutto in alto,
sul piumato paradiso.
Senti il profumo dell’aria. Sa di pino bianco,
più intenso quando il vento lo attraversa
e il suono è strano nello stesso modo
di quello del vento nei film.
Le ombre si muovono. Le corde
fanno il suono che fanno. Quello che ora senti
sarà il canto dell’usignolo cordato,
del maschio che corteggia la femmina.
Le corde si spostano. L’amaca
ondeggia al vento,
legata saldamente ai tronchi di due pini.
Senti il profumo dell’aria. Sa di pino bianco.
Quella che senti, è la voce di mia madre
o è solo il suono che producono gli alberi
quando l’aria li attraversa,
perché quale sarebbe il suo suono
se attraversasse il nulla?