Papa Benedetto XVI, “Cui prodest?” (“A chi giova?”)

Non intendo sparare a zero su quello che è stato Papa Benedetto XVI, che indubbiamente ha governato la Chiesa Cattolica in un periodo di grandi difficoltà, che, però, non erano più grandi di quelle incontrate da molti suoi predecessori. E’ certo però, che pur in mezzo a tanti problemi e in momenti molto bui della Chiesa, mai nel passato un papa si era dimesso, fatta eccezione di Celestino V al secolo Pietro da Morrone…

 

di ANDREA FILLORAMO

Non intendo sparare a zero su quello che è stato Papa Benedetto XVI, che indubbiamente ha governato la Chiesa Cattolica in un periodo di grandi difficoltà, che, però, non erano più grandi di quelle incontrate da molti suoi predecessori. E’ certo però, che pur in mezzo a tanti problemi e in momenti molto bui della Chiesa, mai nel passato un papa si era dimesso, fatta eccezione di Celestino V al secolo Pietro da Morrone.

 

Ricordiamo che questo eremita abruzzese, che, salito al soglio pontificio, prenderà il nome di Celestino, era accompagnato da un’ampia fama di santità anche prima di diventare Papa ma ha commesso l’errore di accettare per obbedienza la tiara pontificia. Egli non era affatto un uomo di governo, come lo era prima di diventare papa il Cardinale Ratzinger: era un monaco estremamente ascetico, completamente inadatto a muoversi nel complesso ambiente della Curia Romana e si dimostrò un sant’uomo ma un pessimo politico. Di tutto ciò egli stesso se ne rese conto, tanto che, con un atto clamoroso e comprensibile, con senso di responsabilità, lasciò il pontificato e tornò alla vita eremitica. A differenza di Celestino V, le dimissioni di Ratzinger hanno lasciato molti dubbi sulle cause vere del suo abbandono. Esse non possono essere sicuramente quelle dell’età avanzata come egli stesso ha voluto far pensare né sono stati motivi di salute, se ancor oggi, a distanza di sei anni, lo vediamo più che novantenne, vivo, vegeto e lucidissimo, intento ad affermare quello che era ed è, cioè un uomo pronto anche a morire ma di non cedere il passo a nessun ripensamento sulle sue opinioni e sulle sue idee.

Opinioni e idee che, particolarmente negli ultimi tempi del suo pontificato erano rivolte più al passato trionfalistico della Chiesa anziché alla Chiesa “popolo di Dio”.  Che Papa Benedetto amasse più il passato che il presente, si deduce anche e, in modo bizzarro, dall’utilizzo  di alcuni abiti pontifici da tempo non più usati di origine rinascimentale come la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino bianco, la mozzetta bianca damascata senza ermellino, per i giorni più caldi del tempo pasquale, il “saturno“, cioè un copricapo rosso a tesa larga, il camauro, un copricapo di velluto rosso bordato di pelliccia utilizzato dai papi fino al Settecento.

Pertanto se molti hanno considerato le sue dimissioni   un atto   di coraggio e di umiltà, altri l’hanno visto come un atto di viltà, data l’incapacità manifesta di affrontare le questioni che lui stesso come pontefice e come strettissimo collaboratore di Giovanni Paolo Secondo per molti anni, aveva contribuito in modo determinante ad alimentare. A tanti inoltre non è piaciuto il fatto che, dopo le dimissioni, egli si sia proclamato equivocamente emerito, che abbia continuato ad indossare  la veste bianca, che sia rimasto ad abitare dentro le mura del vaticano, che sia apparso più volte accanto a Papa Francesco in momenti liturgici o avvenimenti di stretta competenza del papa regnante, creando una confusione di ruoli che facilmente poteva essere evitata con il suo volontario allontanamento dagli Uffici del Vaticano e con il ritiro in qualche convento dove poteva rappresentare non più la Chiesa docente ma quella orante.

Ciò, però, non è avvenuto e si sconoscono i motivi. Ma andiamo avanti. Nessuno fino a qualche giorno fa pensava che quello che fu Papa Benedetto scrivesse un lunghissimo documento con cui, pur affermando di aver avuto il permesso di Papa Francesco, ne distruggesse l’autorevolezza, ponendosi come capo fila dei tradizionalisti, che osteggiano l’attuale vero pontefice. Da qui il “fiume  d’inchiostro”  con cui Ratzinger travolge la rivoluzione sessuale del ’68 e  il Concilio Vaticano Secondo, che, a suo parere, ha generato l’incertezza, anzi la crisi determinata dall’abbandono della vecchia morale concernente la sessualità e dove verrebbe accolta la latente giustificazione del silenzio dei pontefici sull’omosessualità dei preti e  per molto tempo  il suo stesso silenzio, sulla pedofilia clericale che sta ammorbando la Chiesa.  Ratzinger, sicuramente non dimentica che, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, si occupò del caso  del  Rev.do Marcial Maciel  Degollado, fondatore della Congregazione dei Legionari di Cristo, Maciel era accusato di pedofilia, di altri abusi sessuali su seminaristi e di abuso del sacramento della confessione per aver assolto alcune delle sue vittime. Maciel commise tali delitti in modo plurimo e continuativo tra gli anni quaranta e gli anni sessanta. Il 19 maggio 2006 la Sala stampa della Santa Sede rese pubblica la decisione della Congregazione per la Dottrina della Fede «– tenendo conto sia dell’età avanzata del Rev.do Maciel che della sua salute cagionevole – di rinunciare ad un processo canonico”.

Ratzinger certamente ricorda ancora quando nel settembre del 2011 il gruppo di associazioni delle vittime dei preti pedofili Snap (Survivors network of those abused by priests) e il Centro per i diritti costituzionali (Center for Constitutional Rights) depositarono presso la Corte penale internazionale dell’Aia un ricorso in cui accusavano Benedetto XVI, il segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, il suo predecessore cardinale Angelo Sodano e il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale William Levada, di crimini contro l’umanità per la presunta copertura dei reati commessi da sacerdoti contro i minori. Eppure per Joseph Ratzinger, il concilio Vaticano II – aveva sostenuto nel passato tante volte da papa – ha avviato un «rinnovamento» della Chiesa, incluso il superamento della sessuofobia, al quale invitava il Concilio, da lui vissuto con entusiasmo e di cui fu un ardente promotore. «Fu un tempo di attesa straordinaria. Grandi cose dovevano avvenire» diceva.

Dov’è adesso quel fervente sostenitore e artefice della riforma conciliare, che insisteva su una «ermeneutica della continuità» del Concilio Vaticano II con la Tradizione, «un rinnovamento nella continuità», in opposizione ad una «ermeneutica della rottura» tra il Vaticano II e la Tradizione? A noi non resta nient’altro che la domanda: “Cui prodest?” (“A chi giova?”), perché Ratzinger ha scritto quel documento che l’accosta a tanti tradizionalisti anche di casa nostra, che lottano a viso scoperto Papa Francesco?  Di quale autorità egli si è sentito investito, dato che da sei anni non è più papa, avendo rinunciato sua sponte al pontificato? Sicuramente qualche teologo a queste domande darà delle risposte.