Raccontare il martirio, o le persecuzioni dei cristiani fa bene, lo sostiene il giornalista americano Rod Dreher nel suo libro “L’opzione Benedetto” (San Paolo, 2018). Riportare «le storie di uomini e donne coraggiosi che patirono tormenti fisici e morirono piuttosto che tradire Cristo […] Questi martiri sono dei nostri e hanno lezioni importanti da insegnarci – lezioni che abbiamo un disperato bisogno di ascoltare».
E se fa bene sentire le storie del martirio passato, figuriamoci di quello che riguarda il nostro tempo che stiamo vivendo. Anche se per la verità, sentire parlare di martirio non è adatto all’euforia ottimistica di certi ambienti cattolici. Infatti non sentirsi bersaglio come in tanti Paesi del mondo, «può renderci pigri, più propensi a ignorare che in molte parti del mondo dichiarare la propria religione è un atto di coraggio, che può portare alla morte», scrive Barbara Serra di Al Jazeera English, nella prefazione all’ottimo e documentato libro di don Luigi Ginami, «Dove i cristiani muoiono», pubblicato da San Paolo (2018).
Don Luigi è presidente della Fondazione Santina Onlus, che cura progetti di adozione a distanza e realizzazioni in ogni parte del mondo. In questa veste ha raccolto le testimonianze dirette e uniche di uomini e donne in quattro diverse missioni compiute in Kenya, poi in Iraq e in Palestina. Anche don Luigi è convinto che sia importante raccontare la vita dei cristiani sofferenti e perseguitati oggi. «Questi viaggi di solidarietà mi fanno aprire la porta e uscire fuori. E fuori ti accorgi che la gente vive il Calvario». Anche se poi il sacerdote aggiunge una profonda riflessione che vale per lui, ma anche per tutti noi che viviamo in Occidente. «Parliamo si, del Calvario di Gesù, ma nel frattempo ci costruiamo una bella stanza piena di cose che ci rendono la vita comoda».
Don Ginami inizia il suo viaggio in Kenya il 16-23 febbraio 2017 a Dadaab, presso il più grande campo profughi dell’ONU del mondo (circa 360.000 persone). Qui ci sono profughi della vicina Somalia, del Sudan, del Sud Sudan e dell’Uganda. Il sacerdote insieme ai suoi collaboratori, ascolta storie e raccoglie testimonianze. Il campo di Dadaab, «accoglie vittime di violenze fisiche e psicologiche, di stupri di massa, di mutilazioni genitali femminili legate alla cultura tribale – scrive padre Gigi – accoglie persone che hanno gli occhi sbarrati dal dolore, che nel loro corpo portano orribili segni di tortura: tagli, bruciature, ossa rotte in più parti, cicatrici sulle mani, sui fianchi, sulla schiena, sulle gambe, sulla pancia».
In questa realtà di terrore e di dolore, c’è un fatto incontestabile: gli uomini e le donne più perseguitate sono i cristiani, che sono visti con odio da una parte consistente del mondo musulmano. Di conseguenza, «essere cristiano a Dadaab significa essere doppiamente perseguitato: a motivo della guerra, o delle guerre tribali, e a motivo dell’odio religioso». Su 360.000 profughi, il 9% è cristiano, si tratta di una minoranza che non dovrebbe fare paura a nessuno, invece muoversi nel campo, per un cristiano è rischioso. Don Gigi, racconta la testimonianza di dolore di Gladis, cristiana del Sud Sudan, quando era studente, ogni volta che entrava in classe, i musulmani imponevano la preghiera coranica. Una volta si è rifiutata e la misero in prigione, torturandola. «Mi ponevano davanti un foglio sul quale dovevo sottoscrivere l’abiura del cristianesimo». La donna si è rifiuta e per questo è stata picchiata e stuprata più volte dai soldati. Un’altra storia significativa è quella di Antoine, il catechista fiero di essere cristiano. Per questo ha rischiato di morire, è stato investito da una motocicletta, gli hanno rotto tutte le ossa, passando sul suo corpo per ben tre volte. Secondo Antoine, in questo campo Al Shabaab, l’organizzazione terroristica islamista, ha programmato l’uccisione dei 148 studenti all’Università di Garissa.
Ecco il 2° viaggio di don Gigi a Garissa, dove c’è stato il massacro dei giovani studenti cristiani, il 2 aprile 2015.
Per il sacerdote quei poveri studenti uccisi barbaramente dall’odio islamista sono dei veri e propri martiri. Nel libro si racconta dettagliatamente l’emozionante pellegrinaggio del religioso presso i locali dell’università del Kenya. Don Luigi entra nei particolari della macabra esecuzione dei poveri ragazzi. Nelle aule, nelle stanze, ancora si possono trovare i suppellettili utilizzati dai ragazzi martiri. Nei visitatori cresce la commozione, gli occhi sono pieni di lacrime. Tocca a don Luigi celebrare la prima messa dopo la strage. «Oggi torna – scrive don Gigi – a scorrere il sangue, in quest’aula, ma è il sangue presente in un calice e, in virtù dell’eucarestia che celebro, ci rende presente il sangue di Gesù e il suo sacrificio».
Tuttavia don Gigi assicura i lettori che «la fede cristiana deve ripartire da Garissa come in passato ripartì da Roma, come altri luoghi in cui si massacrano i cristiani, è un faro di luce per tutti noi. La terribile debolezza di 148 ragazzi proclama la granitica fede in Dio e nella sua parola e proclama il fatto che i cristiani reagiscono al martirio porgendo l’altra guancia, che i cristiani perdonano chi spappola i loro crani, che i seguaci di Gesù sono pazzi fino al gesto supremo dell’amore per i loro nemici».
Il libro si sofferma sui particolari dell’esecuzione dei studenti, la maggior parte di loro sono stati giustiziati, nel dormitorio Elgon B e qui che gli uomini di Al Shabaab, armati con fucili pesanti, li hanno uccisi, perlopiù tramite decapitazione (si tagliava la carotide, far uscire fiumi di sangue e solo dopo staccare violentemente la testa). Lo ha raccontato un professore cattolico sfuggito alla strage.
Ma i giovani a Garissa non morivano solo sgozzati, ma anche con «proiettili a espansione: un terribile modo di uccidere, teso semplicemente ad ammazzare, ma soprattutto a sfigurare i martiri. […] La munizione a espansione causa la frantumazione della scatola cranica in mille pezzi». Si tratti dei fucili d’assalto AK47. Interessante il racconto di uno studente cristiano Nicholas, si è salvato perchè ricordava a memoria una sura del Corano, imparata da suo zio. Infatti i jihadisti invitavano gli studenti a recitare a memoria un brano del Corano, chi faceva scena muta era freddato.
Don Gigi è riuscito ad avere quattro bossoli vuoti, probabilmente hanno ucciso i poveri studenti. Con profonda emozione, don Gigi custodisce accuratamente questi oggetti, trattandoli alla stregua delle “reliquie”. Negli altri viaggi ne raccoglie altre , soprattutto quando visita la Piana di Ninive.
A questo punto il sacerdote si domanda come rendere concreti i volti di questi ragazzi, che meritano di essere ricordati come sono ricordati i tanti martiri della Chiesa primitiva, delle grandi persecuzioni al tempo dei romani. Ecco viene trovato un sms di Janet, una ragazza innamorata di 22 anni, che prima di morire scrive al proprio ragazzo: “Amore, stanno venendo per noi, siamo i prossimi, dove è l’esercito che ci aiuti? Stiamo per essere uccisi. Se non dovessimo più vederci amore sappi che ti amo tanto. Ciao e prega per noi…Dio ci aiuti!”. Un piccolo poema d’amore struggente. Una dichiarazione d’amore, di una splendida e bella ragazza di 22 anni, davanti all’odio implacabile degli aguzzini islamisti. Una morte orrenda, ma «Quelle parole, quel semplice testamento di una vita nel suo sbocciare,– per il sacerdote bergamasco – riservano un posto d’onore a Dio e io penso che Dio, il 2 aprile 2015, abbia riservato un posto d’onore alla sua Janet e ogni tanto mi trovo a invocarla, a chiederle il suo aiuto e la sua forza».
Questa ragazzina fragile e spaventata, morta per il Signore è semplicemente un gigante. «Del resto – scrive don Ginami – tutti i martiri e testimoni nella storia della Chiesa sono stati fragili e deboli, ma con la loro vita hanno saputo gridare che “Quando sono debole è allora che sono forte”».
In questi particolari del racconto che si ha la conferma che conoscere, entrare nella vita di questi martiri a noi cristiani fa tanto bene, e se poi ci capita di toccare qualche frammento che appartiene a loro, questo diventa «un potente farmaco contro la vita dissipata che tutti viviamo in Europa». Pertanto, «toccare con mano il loro sangue, accarezzarmi con il loro sangue la fronte mi rende partecipe della loro storia».
Avvicinandoci ai martiri di Garissa, non possiamo che baciare fisicamente il Vangelo di Giovanni, quando dice: “Verrà l’ora in cui vi uccideranno ed uccidendovi penseranno di rendere gloria a Dio” (GV 16,2)
Il viaggio di don Ginami continua in Iraq, nella città devastata di Mosul, qui racconta gli orrori della guerra degli uomini neri di Daesh, il cosiddetto stato islamico dell’Isis.
Anche qui il religioso constata che si muore per Gesù e allora è meglio scappare, come stanno facendo i cristiani in tutto il Medio Oriente.
In Iraq, il sacerdote ascolta i racconti del terrore islamista, in particolare quello dei bambini. In un campo di rifugiati dell’UNCHR, Al Dawidiya Refugee Camp, si affida al racconto di Nasren, una ragazzina yazida. «In Europa nessuno immagina cosa provi un piccolo iracheno, cosa provi una ragazzina di soli undici anni davanti alla follia! Quanti piccoli hanno devastato, quei criminali, con il loro terrore?». Qui don Luigi apre una parentesi medica sui risvolti patologici delle violenze brutali subite dai piccoli, dai bambini, sui disturbi post-traumatici da stress. E a proposito dell’etnia yazida, don Gigi evidenzia la violenza che si è abbattuta sulle donne rese schiave.
Interessante il racconto del religioso nella sua avventura in città a Mosul, il suo accompagnatore, Ivan, un giovane cristiano, munito di pistola, pronto a utilizzarla. A Mosul non ci sono più cristiani, sono fuggiti, quando la città è stata occupata dall’Isis. Colpiscono le numerose scritte farneticanti dei jihadisti sui muri delle case ma anche nelle chiese profanate.
Abbastanza surreale e da brividi la santa Messa che padre Ginami celebra in una chiesa diroccata di Mosul, praticamente si trovano soli in tre. E’ la prima messa che si celebra qui dalla liberazione dall’Isis. A Mosul che si sente il rumore della guerra. Il viaggio nella Piana di Ninive diventa un vero pellegrinaggio tra i villaggi abbandonati dai cristiani. «E’ stato un pellegrinaggio di tristezza e di riflessione. Un momento di revisione profonda in paesi devastati dai serpenti velenosi di Daesh». Per certi versi il sacerdote ha descritto una specie di geografia dell’orrore, anche qui raccoglie e li porta a casa frammenti di croci, pezzi di statue di madonne. «Il valore materiale di questi ricordi è nullo, ma il loro potere spirituale è terribile: sono reliquie davanti alle quali pregare con intensità».
A questo punto don Ginami si interroga: ma perchè il mondo perseguita i cristiani? Probabilmente la risposta sta nel Vangelo: «il mondo odia i cristiani per la stessa ragione per cui ha odiato Gesù, perchè Lui ha portato la luce di Dio e il mondo preferisce le tenebre per nascondere le sue opere malvage».
A don Gigi vengono in mente le parole di Papa Francesco, nell’Angelus del 26 dicembre 2016, nel giorno di santo Stefano: «Anche oggi la Chiesa, per rendere testimonianza alla luce e alla verità, sperimenta in diversi luoghi dure persecuzioni, fino alla suprema prova del martirio […] io vi dico una cosa, i martiri di oggi sono in numero maggiore rispetto a quelli dei primi secoli […]».
Il testo del sacerdote si conclude con l’esperienza nel cuore dei conflitti medio-orientale, nella Striscia di Gaza, in Palestina. La città rappresenta un mosaico di orrore. Anche qui, tra le contese di Hamas e al Fatah si racconta l’estrema difficoltà di vivere da cristiani.
DOMENICO BONVEGNA
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