di Roberto Malini
Nella scena dell’arte contemporanea, raramente un giovane artista riesce a fondere in modo particolarmente incisivo quella che ormai possiamo definire come tradizione consegnataci dall’arte moderna e la necessità di innovazione. Kelvin Asemota Odufuwa, invece, sembra trovarsi a proprio agio in questo compito che si è assunto. La sua mostra personale, Persistenze, ospitata dal 14 al 22 settembre presso il Palazzo del Turismo di Cattolica (RN), rappresenta non solo un dialogo visivo con i maestri del surrealismo e della pittura metafisica, ma anche una critica acuta e lucida ai tempi che viviamo. Con una serie di dipinti in bianco e nero – o meglio, in nero su fondo monocromatico – Odufuwa sottrae colore e aggiunge significato, convinto che il troppo spesso distragga dall’essenziale, come se le sue figure emergessero come sagome ben visibili dalle nebbie dell’incertezza che sembra avvolgere oggi la dimensione dell’arte.
Il titolo della mostra, Persistenze, non può che richiamare alla mente “La persistència de la memòria” di Salvador Dalí, uno dei capisaldi del surrealismo, dove il tempo si liquefa e la realtà si dissolve in una dimensione onirica. Tuttavia, Odufuwa non si limita alla citazione. La sua “persistenza” non è la lentezza onirica di orologi molli che si sciolgono nel paesaggio, ma è il ootere della grande arte di ancorarci alla verità. mentre siamo coinvolti nel ritmo frenetico di orologi impazziti, simboli di un’epoca in cui la realtà viene vissuta a una velocità che disintegra la nostra capacità di assaporare l’esistenza.
Fake Life, il titolo di una delle sue opere più iconiche, appare quasi come un manifesto. Odufuwa denuncia con forza l’ipocrisia e la superficialità della cultura contemporanea, un mondo che sembra aver scambiato la profondità per la velocità e il contatto umano per la connessione digitale. È come se l’artista ci invitasse a rallentare, a guardare la vita con occhi nuovi, a contemplare le sue opere come varchi attraverso i quali l’esperienza estetica può ancora rifluire nel tessuto della vita quotidiana.
Sulle orme di Giorgio De Chirico, che con le sue piazze metafisiche ci costringeva a confrontarci con il silenzio e l’inquietudine dello spazio vuoto, o come René Magritte, che con i suoi giochi di rappresentazione ci spingeva a interrogare la natura del reale, anche Odufuwa usa la figura umana per sondare i limiti della percezione. Nei suoi dipinti, le sagome nere e stilizzate si stagliano in un vuoto esistenziale che è insieme memoria storica, critica sociale e attesa di valori primari. Non sono semplici omaggi agli artisti del passato, ma è piuttsoto la continuazione di una conversazione che attraversa i secoli e che Odufuwa arricchisce con la sua prospettiva africana e la sua sensibilità contemporanea.
Le opere di Odufuwa sembrano scaturire da quella zona liminale in cui l’arte africana e quella occidentale si incontrano e si fondono. Le influenze dell’arte africana tradizionale, con la sua iconografia simbolica e la sua gamma cromatica ridotta, sono evidenti. Le figure umane appaiono come archetipi senza tempo che si muovono attraverso il tessuto dell’arte moderna come portatori di un’eredità comune. Proprio come la scuola congolese di Poto Poto ha saputo influenzare l’arte moderna occidentale, Odufuwa si impegna per infondere nelle sue opere un’energia energia primordiale e spirituale, capace di riconnettere lo spettatore con ciò che è stato perso nel vortice del progresso tecnologico e della globalizzazione.
Queste figure, che sono già apparse nel repertorio di De Chirico o Magritte, diventano in Odufuwa ombre e nello stesso tempo simboli di continuità tra passato e presente, tra la memoria e l’oblio, tra l’Africa e l’Occidente. Come scriveva Henri Matisse, “un’opera d’arte deve possedere un potere intrinseco che trascenda il tempo e lo spazio”. È precisamente questo potere che le opere di Odufuwa sembrano possedere. Sono finestre aperte su una dimensione che resiste all’oscurità di un’epoca dominata dalla tecnologia e dal consumismo.
Un’epoca in cui l’Intelligenza artificiale, usata spesso senza metodo e con superficialità, rischia di dettare dettare nuovi paradigmi di creazione artistica, l’opera di Odufuwa è un atto di resistenza. Non si arrende alla superficialità del virtuale privo di profondità, ma trasforma l’atto del vedere in un processo di scoperta, di ritorno alla radice umana dell’arte. Nella sua pittura c’è un po’ dell’insegnamento di Pablo Picasso, che ritornava alle origini per reinventare una visione “cubista” del mondo che già apparteneva all’arte africana tradizionale. In sostanza, Odufuwa ci invita a considerare il potere della semplicità e della profondità in un mondo che spesso le dimentica.
Kelvin Asemota Odufuwa, dunque, non è solo un osservatore del presente, ma si prepara a essere un artefice di futuri possibili. Le sue opere, come finestre che non si chiudono mai, ci ricordano che l’arte persiste, che è una luce che resiste all’oscurità. Nella confusione di una società globalizzata e sempre più artificiale, Kelvin ci offre un varco verso la contemplazione, un invito a ritrovare quel legame perduto con l’umanità e con il nostro io più profondo.