Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo

di ANDREA FILLORAMO

Quante volte abbiamo detto “il mio ragazzo”, “la mia ragazza”, “mia moglie”, “mio “marito”, “mio/a “figlio”, “ la mia nazione”, il mio………….la mia…….. etc.., Abbiamo, quindi legato ad un aggettivo possessivo una cosa o una persona, affermando di possederla o di volerla possedere.

Il senso del possesso, implicito nell’aggettivo “mio”, esprime l’egoismo umano e diventa per noi un qualcosa di fortemente connaturato da non poterne fare a meno. L’abbiamo imparato a conoscere fin da piccoli quando tra le primissime parole pronunciate a fatica, dopo “mamma” e “papà” è comparsa l’espressione “è mio”, quando abbiamo strappato magari dalle mani di un altro bimbo il giocattolo o l’oggetto ambito e abbiamo fatto il possibile per non lasciarlo più.

Dal senso del possesso scaturisce un atteggiamento che è parte integrante della vita sociale, della vita di coppia, della vita familiare.

Abbiamo, però, al di là di queste considerazioni, una certezza: l’origine del senso del possesso va ricercato, non tanto nel nostro uso della grammatica ma nel senso di separazione che sentiamo o  abbiamo con gli altri, con il mondo esterno, con le persone e con le cose. Quando, infatti, percepiamo intimamente qualcosa come separato da noi, diverso da noi o esterno a noi allora nasce il desiderio di possederlo, in tutti i modi.

Ma, andando al di là di queste considerazioni che prendono spunto dal linguaggio che per convenzione, per prassi, per abitudine dobbiamo necessariamente usare, ci chiediamo: siamo, proprio, sicuri che gli altri e le cose che arricchiscono questo mondo meraviglioso, ci appartengono o ci possono appartenere?

Per rispondere a questa domanda qualcuno, forse orientato dalla psicanalisi che cerca di buttare tutto nell’oscuro mondo dell’inconscio, potrebbe rispondere che il senso del possesso ha molto a che fare con la frattura materna originaria e che, quindi, con l’utilizzo di mio, si vuole stabilire nella dualità la perduta unità è, quindi un ritorno nell’utero materno.

Altri verranno fuori con altre e inutili teorie psicologiche, che lasciano il tempo che trovano. Tutto per dimostrare l’indimostrabile, che, cioè le cose e le persone, almeno quelle che si amano ci appartengono. Una sola è, però, la verità: nulla o poco di buono viene dal senso del possesso, che crea separazioni, rancori, gelosie, invidie, odi, guerre e morti.

Basta aprire a Bibbia e scoprire che è stato il senso del possesso a causare le drammatiche vicende di Giacobbe ed Esaù, attraversate da manipolazione e inganno, da propositi di violenza e da separazioni forzate, da conflitti esacerbati e da inattesi riavvicinamenti. Pertanto ancora, come allora, ci chiediamo: dov’è Dio in tutto questo? Come riconoscerlo nelle storie umane spesso controverse e poco lineari? Eppure, è proprio sul palcoscenico della vita che la Bibbia mette in scena il dramma delle relazioni familiari e dell’inattesa possibilità di trovare il volto di Dio nel volto del fratello (cfr Gen 33,10).

Senza il senso del possesso, infine, non potremo comprendere quello che sta avvenendo in Ucraina e in altre parti del mondo, le ingiustizie, le separazioni, i femminicidi, la povertà, la fame, e, prima fra tutti, la disuguaglianza civile che c’è fra gli uomini.

Forse aveva ragione Rousseau che si concentra sulla disuguaglianza nel suo Discorso sull’origine e sui fondamenti della disuguaglianza. Polemizzando indirettamente con Locke, che poneva la proprietà della terra tra i diritti naturali, Rousseau apre indicando la sua origine in un semplice atto di forza, per riconoscerne poi il carattere di diritto civile.

Ripercorrendo le tappe della civilizzazione, il filosofo francese evidenzia poi il momento in cui la società agricola si trasforma in società del lusso, aumentando a dismisura la disuguaglianza delle fortune famigliari; qui si manifesta il potere perverso della proprietà, che non solo apre un abisso tra il proprietario e il povero, ma induce a distribuire anche la considerazione sociale secondo la ricchezza. Comincia così, secondo Rousseau, il dominio dell’apparenza, che impedisce la valutazione sociale dei meriti individuali e introduce perfino nel cuore dell’uomo una forma di falsa coscienza: “ Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al ge­nere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fos­sato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno.

L’idea di proprietà si è costruita e radicata nello spirito umano in un tempo molto lungo.  Eppure Gesù (Vedi Mt 19, 16-26 – Mc 10,17-31- Lc 18,18-30) disse : “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.

Con questo spirito oggi l’incontro del cardinale Matteo Maria Zuppi, inviato del Papa in Russia il 28 e 29 giugno per trovare “vie per una giusta pace”; ieri il colloquio con il consigliere di Putin per la politica estera e con i vescovi cattolici in Nunziatura. Giornate scandite da incontri e appuntamenti dei due a Mosca. È la seconda tappa della missione del presidente della CEI dopo quella a Kyiv del 5-6 giugno scorsi, durante la quale aveva pregato per tutte le vittime del massacro a Bucha e incontrato il presidente Volodymir Zelensky.