Fuoco sotto. Fuoco sopra. Romanzo culinario d’appendice bisettimanale e d’appendicite cronica di M. Gavio Fano Galt.
Capitolo 2.
“ …l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione.
L’oro brunito dell’involucro, la fraganza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.” (Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
La pasta al forno alla messinese ha due parenti; uno prossimo, in linea collaterale; l’altro remoto, in linea retta. Un cugino, il timballo di anelletti, must nel palermitano.
Un avo, il pasticcio monsu’. Si. I maccheroni in crosta dei gattopardi isolani.
Uno scrigno non concepibile senza arte, fantasia, pazzia.
Paffuto, solenne, sontuoso. Un miracolo di incontro tra il dolce e il salato.
A leggere gli ingredienti non ci si crede.
Eligio era stato introdotto alla conoscenza di questa ricetta da Raniero.
Raniero gli era affine. Vicino per sensibilità, gusto, impegno.
Collezionava biglie di vetro. Alessandro Baricco ci racconta che il mondo è pieno di gente che gira in tasca con le sue piccole biglie di vetro. “Io questo l’ho capito, … è una cosa che ti mette l’allegria addosso… non smetterla mai… e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita, a modo suo… meravigliosa vita.”
Era un ambizioso Raniero. Non uno scalatore sociale. Non ne aveva bisogno; non ne avvertiva il bisogno.L’ambizione, se orientata positivamente, ingranata la marcia, diventa un potente acceleratore.
Già nei banchi di scuola aveva appreso la lezione. Il papà di una compagna di classe era deceduto prematuramente. Si era distinto come assessore nel tentativo, tentativo riuscito, di recuperare al decoro urbano una villa abbandonata per consegnarla alla fruizione di grandi e piccini. Questo sforzo era stato premiato dai colleghi di partito. Compagni. Alla inaugurazione venne apposta una targa. Quella targa resisterà. Nessuna disattenzione, nessuna incuria, nessuno sciupio potrà anche a distanza di decenni e – forse – secoli impedire di chiedere chi era. Un nome e un cognome che non si dissolveranno. Un fossile di generosità nella comunità.
Raniero era nato in riva allo Stretto.
La sua famiglia, di origine inglese, vi risiedeva da generazioni. Da generazioni ivi venivano seppelliti. Dapprima nella penisola di San Raineri. Dopo nel Cimitero Monumentale concepito da Giardino d’Arte … prima d’arte nell’arredo funerario … dopo d’arte nella sottrazione di sculture marmoree. Ai posteri una galleria di immagini su chi ha impreziosito e su chi ha depauperato Messina. Messana Nobilis Siciliae Caput non la puoi veramente conoscere se non visitando il Gran Camposanto.
Vituperata nelle classifiche sulla qualità della vita, non può risalire affidandosi alle articolazioni famose irrorate da buona circolazione sanguigna delle guide cittadine. Ne’ girovagando scalzo ne’ impugnando zampogna in fascia tricolore.
Messina, menzionata nel Colossal Ben Hur, undici premi Oscar, nella famosa corsa delle bighe in Gerusalemme. “Sia reso onore a chi corre per noi. Alessandria, Messina, Cartagine, Cipro, Roma, Corinto, Atene, Frigia e Giudea”. I nostri co-fondatori, provenienti da Messene, stanziatisi nella Falce(la falce che aveva adoperato Crono per evirare Urano) si erano ribellati – persino – alla prepotenza di Sparta. Ora il vassallaggio sembra pratica diffusa. Troppi vassus. Stessa radice dei vasini da notte. Ci si è dimenticati di questo timballo di Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata.
La indicazione degli ingredienti è un tripudio.
Per dodici, anche meno di un chilo di pasta. Il risultato finale imporrà – comunque – per estrarre il timballo dal forno bicipiti da culturista.
Quattro procedimenti prodromici.
Uno per la pasta frolla. Un altro per la farcia. Un terzo per le polpettine. Un quarto … per la crema pasticciera. Avete letto bene. Crema pasticcera. Infine, assemblaggio.
In primis, bisogna preparare la pasta frolla.
Taluni ricettari prescrivono di mischiare 550 grammi di farina 00, 200 grammi di strutto, 40 grammi di zucchero semolato, un bicchiere di vino bianco secco, 1 uovo, 1 tuorlo, 1 cucchiaino di cannella, due pizzichini di sale. Per ottenere un composto omogeneo era consigliato impastare velocemente … con le mani. Beh, ai giorni d’oggi si può usare una planetaria. Chissà quale altra diavoleria supplente dell’olio di polso e gomito troneggerà nelle trasmissioni tv!? Lasciare riposare la frolla un’ora coperta con una mappina o con una pellicola in frigorifero.
Passarealla crema. Abbisognano 6 cucchiai di zucchero, sei tuorli d’uovo, quattro cucchiai di farina, sale un pizzico, cannella un pizzico, un litro di latte intero. Preservare da dita indiscrete.
Terzo. Preparare delle polpettine, della misura di una biglia di vetro o di una nocciola, con 400 grammi di carne tritata di pollo lesso da amalgamare a 2 uova, 400 grammi di prosciutto cotto, 4 cucchiai di formaggio grattugiato, prezzemolo tritato, sale e pepe q.b.. Friggerle in abbondante olio di semi. Esimersi dallo “spizziculiare”. Se manca l’amalgama la compriamo (citazione calcistica).
Quarto. Fare rosolare una cipolla (bianca di Giarratana ma va bene anche rossa di Tropea) in una casseruola con burro e nell’olio extra vergine d’oliva aromatizzato con un rametto di rosmarino. Imbiondita la cipolla, unire le polpettine, il trito di carne, altro pollo (con i fegatini) e prosciutto tagliati a striscioline (julienne), salsicce, funghi, pisellini. Cuocerli per qualche minuto. Versare mezzo bicchiere di Marsala. Aggiungere, dopo l’evaporazione del vino, quattro/cinque mestoli di brodo di carne.
<<Aborro il dado>>tuonava Eligio.
Attendere che “stringa”.
Scolare, nel frattempo, i maccheroni appena scottati in acqua bollente salata. Colorare con qualche decilitro di sugo bianco. Fare raffreddare.
A completamento, imburrare una ampia tortiera ad anello, rivestirne il fondo e i bordi con parte della pasta frolla stesa sottile.
Distribuire metà dei maccheroni. Cunzari con la farcia del quarto passaggio e con formaggio grattugiato, uova sode tagliate, tartufo nero a lamelle. In ultimo, coprire con il resto dei maccheroni dando una forma arrotondata sulla quale si dovrà versare la crema pasticciera da far insinuare morbidamente.Definire il timballo con la pasta frolla avanzata premendo bene i bordi per farla aderire alla prima. Spennellare la superficie con dell’uovo sbattuto e far cuocere per circa 40 minuti nel forno a 180°C. Poco assestante riposo. Se non servite subito vi fate nemici in casa.
Raniero, single incallito, divideva equamente passione per la cucina regionale e per la politica regionale. Sin dai tempi della università. Una volta, in un congresso, aveva osato sfidare generazionalmente l’establishment citando il prete spretato de “Il marchese del Grillo”. Don Bastiano impersonato da Flavio Bucci davanti al patibolo prima della esecuzione del verdetto di morte per ghigliottina si rivolge agli astanti …
<<E voi, massa di pecoroni invigliacchiti, sempre pronti a inginocchiarvi, a chinare la testa davanti ai potenti! Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa davanti a uno che la testa non l’ha chinata mai, se non davanti a questo strummolo qua! Inginocchiatevi, forza! E fatevi il segno della croce! E ricordatevi che pure Nostro Signore Gesù Cristo è morto da infame, sul patibolo, che è diventato poi il simbolo della redenzione! Inginocchiatevi, tutti quanti! E segnatevi, avanti! E adesso pure io posso perdonare a chi mi ha fatto male. In primis, al Papa, che si crede il padrone del Cielo. In secundis, a Napulione, che si crede il padrone della Terra. E per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della Morte. Ma soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo! >>
Da ragazzo pensava con pietasa tutti quelli che non erano padroni di un cazzo. Poi pensò che la condizione di quelli che sono sono padroni di una cazzo era voluta da coloro che sono i padroni. Successivamente, affinò ruvidamente il pensiero. Non era tutta colpa di chi voleva che non avessero un cazzo perché- anche se si fosse voluto che avessero qualcosa – il problema non era avere o meno un cazzo ma non capire un cazzo anzi non volere capire un cazzo. E non capisce un cazzo sia chi ha sia chi non ha un cazzo. Un popolo formato da chi non ha un cazzo, da chi non capisce un cazzo, da chi si sente un cazzo e mezzo.
La sovranità che appartiene a questo popolo.La giustizia amministrata in nome di questo popolo.
Quante volte Raniero, pur avendo smarrito ogni aplomb anglosassone per incarnare la quintessenza dello streuso e dello struruso, aveva invocato scuole di formazione, ritiri, assemblee.
Ora immaginavaun ultimo tentativo. Inserire in illuminista piattaformail metodo ideale di collaborazione democratica nel rispetto meritocratico di gradi gerarchicicrescenti: il rito delle bottiglie di salsa di pomodoro. Dovrebbeassurgere al rosso in calendario per la salvezza nazionale.
A mo’ di parabola soleva affrescare quella giornata di festoso lavoro.
In uno slargo privato, sotto i piedi di un secolare albero di gelso bianco, soleano riunirsi in un di’ d’estate, prima della riapertura delle scuole, più famiglie strette da vincoli di sangue e di vicinato. La giornata iniziava al canto dell’ultimo gallo avvertito in prossimità degli insediamenti abitativi. Dapprima occorreva lavare i pomodori sopraggiunti nei c.d. catastabili. Disposte capienti bagnarole di colore blu, verde, celeste ricolme di acqua versata ‘cca suga (con la pompa … vabbè con il tubo flessibile) i bambini provvedevano, dopo ripetute colluttazioni verbali con i genitori intenti ad impedire che si inzuppassero, a tuffaregiocosamente i pomodori di bagnarola in bagnarola, rimuovendone i picciuoli.
I pomodori pervenivano quindi in mani adulte. Selezionati a uno a uno,da donne premurose, per scartare quelli guasti venivano setacciati con il passa verdure, per separare la polpa dalla buccia. La salsa ottenuta con coppino e imbuto veniva versata, unito il basilico fresco, nelle bottiglie restando due dita sotto o sopra il collo, dipendendo dalla forma del collo e dalla sagomatura dell’anello (cercine).Il livello della cura si innalzava nella delicata operazione del tappare. A questo punto bambini e ragazzotti venivano tenuti a distanza. Per esempio, anche un vice premier, sarebbe stato runzato. Di anno in anno si registravano tecniche sempre più evolute. Infine, le bottiglie tappate approdavano al supremo comando. Era il nonno che avvolte nel quotidiano locale (altro impiego oltre ad asciugare i vetri delle case) le disponeva a raggiera entro lanne giganti sollevate da terra. I fusti imbottiti di sacchi di iuta. Il fuoco con la legna alimentato tutta la notte. All’indomani la conta delle bottiglie eventualmente scoppiate. Un rito che durava persino tre giorni. Per l’acquisto dei pomodori le famiglie dividevano la spesa. A comprarli ai mercati generali, alle tre, massimo alle quattro, ci andava sempre il nonno. Responsabilità circolare perfetta. Le giornate si concludevano con spaghetti e pomodoro. Qualche volta anche, spaghetti pomodoro e melanzane. Non mancavano le cotolette. Un rito. Vuoi mettere nei mesi invernali le conserve di pomodoro fatte in casa? Vuoi mettere il riciclo delle bottiglie per essere riutilizzate nella estate successiva?
Eligio e Raniero ogni tanto battibeccavano.
<<Quale è la frase più incisiva de Il Gattopardo?>>.
Eligio prontamente: <<Tutto cambia perché nulla cambi>>.
Raniero, con l’indice a pendolo replicava <<I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria>>.
<<Quando tutto attorno è diverso perché sfregiato dall’oblio e quando tutti sono diversi perché abbandonati alla solitudine esistenziale cosa si può fare?>>.
<<Recuperare identità>>.
<<Non si può fare nulla. L’unico filo invisibile di continuità lo trattengono, come quello degli aquiloni, i folli. Ricordi “Ehhh no. La piazza è mia. La piazza è mia” … di Nuovo Cinema Paradiso?>>.
<<Quale sorriso possiamo opporre a quello della Gioconda?>>.
Qui si concordava …<<Il sorriso dell’ignoto marinaio di Antonello conservato nel museo Mandralisca di Cefalù>>.
Per la formazione e selezione della classe dirigente si dovrebbe brevettare una sorta di gioco di società di Trivial pursuit siculo da associare ad allenamenti da crossfit facendo file negli uffici dei vari Enti oltre a periodi di leva civica, dopo, ripetesi dopo le elezioni, nelle periferie dell’impero.
Raniero cominciava a temere che non si capisse un tubero neppure nel mangiare.
Questo, soprattutto questo, lo metteva in una condizione di prostrazione.
Il pericolo era in agguato.
Non appena sentiva cucina tradizionale rivisitata … per renderla più leggera … o piatti scomposti .. per presentarli destrutturati … si toccava nelle parti intime.
Rivisitare!? Se non sei un maestro dei fornelli, sei un buddace paraculo. Non si sa se buddace rafforza il paraculo o viceversa.
Il discrimine empatico, senza distinzione tra centro, destra e sinistra, i broccoli.
Nell’ordine, ‘ro malutenpu, ‘ffuati, ‘cca faciola, ‘nta scacciata.
Continua…