Anche per questo mese ho ritenuto opportuno – potrei dire “necessario” – proporre un brano di Geremia (20,7-8), nel quale l’autore lamenta di essere stato “sedotto” nel momento in cui ha accettato l’invito pressante di YHWH ad abbracciare la vocazione profetica.
Le motivazioni profonde che mi hanno spinto a scegliere questa pericope sostanzialmente affondano le radici nella “corposa” ordinazione presbiterale che vivremo nella cattedrale di Messina il prossimo 28 giugno e nell’inevitabile collegamento fra il brano in oggetto e le comuni dinamiche vocazionali all’interno del popolo di Dio.
Spero di chiarire meglio questi passaggi lungo il corso della mia riflessione che, partendo dalla rilettura biblica-esperienziale di Ger, si articola nelle applicazioni esistenziali dei vocati.
Signore, tu mi hai sedotto
e io non ho saputo resisterti.
Hai fatto ricorso alla forza
e hai ottenuto quel che volevi.
Mi disprezzano da mattina a sera,
tutti ridono di me.
Io parlo, e ogni volta
sùbito devo chiamare aiuto
e gridare contro la violenza
e l’oppressione.
Tutto il giorno sono insultato e deriso
perché annunzio la tua parola, o Signore!
Il sottofondo di questo brano (nella versione interconfessionale) è caratterizzato dal desiderio di voler confessare il proprio disagio e la personale sofferenza nell’aver accettato di essere profeta del Signore. Geremia percepisce di essersi lasciato “adescare”, “ammaliare” dalla Parola. Il profeta protesta contro Dio che “approfittando” della sua inesperienza lo chiamò in un momento in cui non poteva calcolare tutte le conseguenze cui sarebbe andato incontro.
Di questa vibrante confessione fa parte l’accanimento dei nemici di Ger che provano in tutti i modi a delegittimarlo attraverso lo schermo e le beffe, metodi con i quali intendono ostacolare la sua predicazione.
A questo punto inizio – come anticipato – la riflessione con cui tento di “trasporre” l’esperienza del profeta nel mondo dei preti e particolarmente sui giovani che verranno ordinati fra poco più di un mese.
Indubbiamente è alquanto graffiante dire che alla base della vocazione presbiterale non può non esservi che una “seduzione”, un “adescamento”… espressioni tipiche della sfera sessuale. Penso tuttavia che se da un lato il linguaggio potrebbe risultare ambiguo e provocatorio, dall’altro – in chiave prettamente simbolica – è il modo più diretto e immediato per affermare che alla base di ogni vocazione c’è la risposta amorosa verso colui che ha posato lo sguardo sull’eletto. Si deve parlare quindi di un trasporto amoroso verso l’Amore di cui ci si sente avvolti. Si tratta di un’attrazione particolare che invita a fidarsi dell’Amore, a consegnarsi totalmente a Lui senza riserve né filtri, così come avviene all’interno del rapporto sessuale.
Ricordo bene ciò che una Suora di Betania – appartenente alla Congregazione domenicana femminile fondata da p. Lataste, un apostolo nelle prigioni francesi a metà Ottocento e beatificato il 3 giugno 2012, ostinato testimone della sconvolgente comprensione della Misericordia: “Dio si commuove non per quello che fummo, ma per quello che siamo”- parecchi anni addietro disse a un gruppo di ordinandi: “Fin quando non ci si innamora di Gesù, non si avrà il coraggio di abbandonare la vita precedente…in questi casi qualsiasi vocazione religiosa diventa il paravento di meschini calcoli umani”.
Mi vengono in mente la parole di un sacerdote coraggioso e maestro di spirito rivolte ai “suoi” giovani studenti di teologia: “Non preoccupatevi se la gente scopre Chi amate…”.
Quando si ama veramente, la capacità e l’intelligenza di rileggere la vita nell’ottica del dono senza ritorno di alcun genere di interesse è il “distintivo” di ogni vocazione, perché si rende palese il segreto che dà consistenza alla scelta di lasciarsi amare dall’Amore e di amare come Lui (qui bisognerebbe incrociare i testi del Cantico dei Cantici e le innumerevoli densepagine di S. Teresa di Lisieux).
Allora si è pronti e motivati ad annunciare verità scomode e a smascherare le illusioni che la vita propina sotto forma di “tranquillante sociale”. Uno stile di vita del genere deve mettere in preventivo la derisione di molti cristiani. Attitudine più o meno strisciante.
Se qualcuno prospettasse ai futuri preti un quadro idilliaco del loro ministero, senza problemi, senza difficoltà e contrasti, senza dubbio sarebbe uno sciocco. Si tratterebbe di un mistificatore che non sa come l’esistenza dei vocati (sulla scia di Geremia) è una lotta continua con un felice epilogo: la vittoria da parte di Dio.
Il “frattempo” dei preti oscilla sempre fra la tentazione di tacere per evitare la reazione negativa del popolo assuefatto alle varie forme aggiornate di idolatria e la spinta incontenibile data dal fascino della Parola: “nel mio cuore c’era come un fuoco ardente…mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).
Per chiudere queste brevi riflessioni, mi sembrano consolanti le promesse di Dio a Geremia (23,29):
“Non è forse la mia parola come il fuoco? Oracolo di YHWH. Come un martello che spacca la roccia?”.
Ettore Sentimentale