di ANDREA FILLORAMO
Quanti, in casa nostra, si aspettavano di festeggiare, nelle recenti elezioni americane, la permanenza di Trump alla Casa Bianca, sperando, così, che la sua vittoria potesse avere una ricaduta sulla politica italiana e così invertire la direzione di marcia con uno maggiore spostamento a Destra, sono rimasti fortemente delusi.
La prima delusa è stata Giorgia Meloni, la sovranista, che è stata ben due volte ospite negli States, calcando lo stesso palco di Donald Trump, senza farsi mancare – a Roma – la convention mondiale dei nazional-conservatori dove ha introdotto, da padrona di casa, i sodali europei molti dei quali hanno scelto “Fratelli d’Italia” come partner nel Belpaese.
L’America conservatrice e trumpiana da tempo era alla ricerca di una valida sponda italiana nella linea di politica internazionale, dopo l’ondivaga politica italiana del governo gialloverde verso la Cina e la Russia e l’ha trovata nella Meloni, che, secondo i bene informati, incarnava alla perfezione il politico di riferimento per l’amministrazione repubblicana, all’interno di un’Europa da tempo divisa soprattutto in materia di politica internazionale. Lo stesso Steve Bannon, il guru della campagna elettorale di Trump, ha avuto parole di grande apprezzamento per il lavoro della leader di Fdi
Fortemente deluso è stato Matteo Salvini, che vorrebbe imitare nel comportamento Trump, senza riuscirci, che segue la sua linea politica particolarmente per quanto concerne il problema dell’immigrazione, diventato, adesso, complottista sul voto americano. Il segretario della Lega sostiene, infatti, Donald Trump e le sue teorie sui voti illegali, sui brogli, sul magheggio del voto postale che avrebbe favorito lo sfidante Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca. Da osservare che Salvini ha rilanciato tali accuse fatte da Trump al Partito Democratico, in un’intervista a Radio 24, tanto da essere definito dall’Independent come la “cheerleader” del Presidente americano.
Delusi sono i cattolici tradizionalisti italiani, che si ispirano ad una certa parte del cattolicesimo e dell’episcopato americano, del cui sostegno a Trump si è fatto portavoce Mons. Viganò, già Nunzio Apostolico negli Stati Uniti. Egli sotto la spinta di Trump, al quale ha inviato, prima delle elezioni, una lettera aperta in cui gli ha assicurato il sostegno suo e di quei vescovi americani che l’appoggiano e che, ormai a viso scoperto, lottano Papa Bergoglio, per loro colpevole di aver portato alla luce le ipocrisie e le contraddizioni del cattolicesimo degli Stati Uniti. Egli, fra l’altro, in questa lettera, così scrive a Trump: “Nella Sacra Scrittura, San Paolo ci parla di «colui che si oppone» alla manifestazione del mistero dell’iniquità, il kathèkon (2Tess 2, 6-7). In ambito religioso, questo ostacolo è la Chiesa e in particolare il Papato; in ambito politico, è chi impedisce l’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale. Come ormai è evidente, colui che occupa la Sede di Pietro, fin dall’inizio ha tradito il proprio ruolo”.
Tutti ormai lo sanno sin dall’inizio, il rapporto fra Trump e Papa Francesco è stato delicato, difficile. Fra il Papa leader e militante di una Chiesa degli ultimi, e il presidente alla guida di una riscossa populista e popolare dell’America profonda, radicale e rancorosa, non può correre buon sangue e il vescovo Viganò sceglie di stare non con il Papa ma con il Presidente Trump.
Delusi, infine, sono coloro che, guardando a Trump, vogliono innalzare l’antagonismo politico, che sta deteriorando il processo democratico del nostro paese, per trovare sfogo nelle televisioni pubbliche e private che abbondano di aggressività verbale, insulti, oscenità, sessismo e dove manca spesso la solidità delle regole procedurali e dei ruoli istituzionali. Così, per quattro anni, è successo con Trump, quando il mondo civile, messo al corrente di alcune sue vergognose esternazioni, ha reagito con sdegno e con disprezzo nei confronti di una persona che, in ogni modo e in ogni atto, ha dimostrato di non essere all’altezza del ruolo che ricopriva.
Per molto tempo, nella mente di costoro rimarrà, perciò, solo l’immagine onirica di un Presidente americano, che nel prossimo gennaio dovrà lasciare il seggio più alto del potere mondiale, la cui diversità dai suoi predecessori, è sotto gli occhi di tutti, anche dei più distratti osservatori o commentatori e, quindi anche di loro.
Essi sanno che Trump, durante il suo mandato, è stato un presidente, a dir poco, anomalo, che ha esercitato il suo potere in modo assoluto, impulsivo, manifestando idee razziste, misogine, svolgendo il suo ruolo con teatralità, alcuni psichiatri dicono: con “narcisismo patologico”; sanno che ha detto tantissime bugie; che ha diffuso teorie complottiste sui suoi avversari politici; che ha licenziato uno dopo l’altro i suoi più stretti collaboratori; che è stato accusato di aver molestato decine di donne; di avere evaso le tasse per molti anni; che ha difeso gruppi neonazisti di estrema destra; che ha radicalizzato le opinioni degli americani.
Egli è stato, ancora, un personaggio emblematico della polarizzazione: eletto dopo una campagna divisiva, in cui non si è mai risparmiato nel distinguere “loro” da “noi”, ha attaccato quotidianamente i suoi avversari dalla più alta posizione delle istituzioni statunitensi, ricevendo una reazione molto combattiva dai democratici, che sono arrivati a utilizzare l’opzione estrema di mettere in stato d’accusa il capo dell’esecutivo, l’impeachment.
Per tutti questi motivi, in Italia e senz’altro in tutta l’Europa, il giudizio della maggioranza sul personaggio del presidente americano, ritenuto inimitabile, è negativo.
Non è, però, così in America dove il consenso dei Repubblicani è molto ampio, dovuta anche alla sua capacità istrionica, demagogica e populista di far coltivare con ogni mezzo il culto della sua personalità, ma anche e soprattutto perché il suo modo di essere e le sue idee sono largamente condivise.
All’interno del partito repubblicano americano, pertanto, monta la rabbia per la sconfitta di Trump, al quale, a parere dei repubblicani, è riconosciuto il merito di aver cercato in tutti i modi di realizzare, radicalizzandolo, il programma conservatore, cioè di aver cancellato gli accordi commerciali che avevano esposto le aziende americane alla concorrenza dei paesi stranieri; di avere in certi casi consentito di delocalizzare le fabbriche nei paesi in via di sviluppo; di aver ritirato gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), un grosso accordo commerciale fra paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico che aveva lo scopo di arginare l’influenza cinese; di aver cambiato alcune parti del NAFTA, l’accordo commerciale con Messico e Canada, e soprattutto di aver avviato una guerra commerciale con la Cina che continua ancora oggi.
Per i Repubblicani americani sarebbe stato necessario ancora un quadriennio perché Trump realizzasse, oltretutto, tutte le promesse fatte durante la campagna elettorale del 2016.
Fra queste promesse, quella di costruire il muro di confine con il Messico; di azzerare le tasse, dato che l’ha solo diminuite facendo crescere, però, moltissimo il debito pubblico; di cancellare e rimpiazzare la riforma sanitaria di Barack Obama; di investire decine di miliardi di dollari nella rete nazionale di infrastrutture; di espellere tutti gli immigrati irregolari; di eliminare lo ius soli; di ritirare quante più truppe possibili dal Medio Oriente.
I filotrumpisti sicuramente non possono non storcere il naso e, quindi, idealmente allontanarsi dalla sua gestione della pandemia da coronavirus, che egli ha minimizzato fin dall’inizio, rifiutandosi di promuovere comportamenti consapevoli e l’utilizzo dei dispositivi di protezione più comune, a partire dalla mascherina, e infine ha sostanzialmente delegato ai singoli Stati, criticando i lockdown e promuovendo comportamenti lassisti e criticati come irresponsabili. Al momento gli Stati Uniti sono il paese con il numero di casi confermati e morti più alto al mondo.
Cosa accadrà in Italia nel dopo Trump che già è iniziato?
Non lo sappiamo, data l’incertezza e la flessibilità della politica italiana. Una risposta a questa domanda può essere, però, forse rintracciata discutendo su una formula che è stata l’opzione, rimarcata sul finale della corsa alla Casa Bianca di Trump che diceva: “La scelta è tra la ripresa di Trump e la depressione di Biden”.
Sappiamo che né Trump, né Biden, né i seguaci dell’uno e dell’altro, oggi potranno condizionare le scelte politiche degli italiani, poiché la nostra cultura e la nostra visione del mondo, distano anni luce da quella degli americani. Gli italiani, quindi sanno come difendersi dagli attacchi alla democrazia e dalla depressione da qualunque parte essa provenga e, quindi ogni riferimento alla situazione politica americana deve ritenersi meramente casuale.