Qualche mese fa condannavo i toni accesi dei vari talk show televisivi sul tema della guerra in Ucraina. Per la verità era capitato la stessa cosa con la pandemia. Ormai, scrivevo, “I talk show stimolano nevrosi collettive. Il livello di litigiosità nel Paese scende nei mesi tra giugno e settembre, non perché andiamo in vacanza (chi è che sta in vacanza tre mesi??): scende perché, stanno in vacanza i talk show.
Dunque, la gente non guarda questi programmi, si disintossica, recupera energie, recupera buonumore e pensa di più. Dunque a livello emotivo è più gratificata. Da settembre, questi talk show ricominciano la loro campagna di martellamento mediatico unidirezionale, con questi programmi urlati senza dibattito, dove c’è una continua ricerca del capro espiatorio e del colpevole da consegnare alle plebi inferocite. Così da settembre, ricominciano le conflittualità domestiche e le nevrosi”.
L’argomento è stato affrontato da Aurelio Carloni sul sito di alleanzacattolica.org, “la guerra della Russia di Putin all’Ucraina diviene terreno di scontro violento tra contrapposte fazioni sui social media. Con una sola regola: non fare prigionieri”. (A. Carloni, “La guerra nella guerra: i social come arma di distruzione del prossimo”, 29.4.22, alleanzacattolica.org). Quando stava per finire il dibattito anche violento tra opposte fazioni di “specialisti” sulla pandemia, ecco la tragedia del conflitto russo-ucraino che si offre come opportunità nuova e inesplorata per avviare un nuovo scontro. Carloni fa riferimento ad un intervento di Ruben Razzante – docente di diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma – che scrive “Una guerra nella guerra. È quella che si combatte nel web e sui social, con la propalazione di fake news, lo spargimento di odio, l’esasperazione dei toni nell’espressione dei commenti e nella manifestazione delle opinioni sul conflitto russo-ucraino”.
Il professore fa riferimento alla rete, ma io credo che la questione si possa estendere anche alle trasmissioni televisive, in particolare ai talk show. Pertanto, invece di “pacificare gli animi e a valorizzare la moralità delle valutazioni e l’etica delle azioni, si sta caratterizzando sempre più come terreno di conflittualità permanente”. Una verità quotidianamente verificabile in particolare su Facebook, ma non solo.
Carloni fa riferimento a come è stata affrontata la questione dei cadaveri di Bucha, i vari dettagli dei bombardamenti degli edifici, se a colpire fossero stati missili, carri armati o altro. “Peccato che a parlare e a spiegare non fossero, nel primo caso, medici impegnati per lunghi anni sui diversi fronti bellici e, nel secondo, militari specialisti nel campo delle armi”.
Praticamente tutti si improvvisano esperti di una materia o dell’altra a seconda delle circostanze. I social media e la connessione senza limiti fanno credere a ciascuno di saperne di più rispetto a chi lo ha preceduto. “In realtà si galleggia sul rumore. Ci si ferma ai titoli e si finisce col sapere nulla di tutto”.
Secondo Carloni in questi anni di pandemia e ora con la guerra, ognuno di noi si crea un rifugio sicuro, simile alle grotte alle grotte usate nell’era paleolitica dall’umanità per difendersi dalle intemperie e dagli animali selvatici. “Nascono così le cosiddette eco chamber, vere e proprie trappole del pensiero e della ricerca della verità, in cui si ascolta unicamente l’eco delle opinioni proprie e di chi la pensa come noi”.
Sostanzialmente siamo in una società che fugge il silenzio per sfuggire alle domande di senso della vita a cui non è in grado di dare risposte. “Una società che corre veloce, che non dorme mai, che non è mai in silenzio perché ne ha paura”. Il tema del silenzio è stato affrontato dal cardinal Robert Sarah nella sua splendida conversazione con Nicolas Diat (La forza del silenzio – Contro la dittatura del rumore, Cantagalli 2017). Un testo che ho recensito e presentato ai vari giornali dove collaboro. Sarah, dice: “Oggi troppo pochi sono i cristiani che accettano di rientrare in sé stessi per guardarsi dentro e lasciarsi guardare dentro da Dio. Ribadisco: sono troppo pochi coloro che accettano di confrontarsi con Dio nel silenzio, di lasciarsi infiammare in questo grande faccia a faccia. Uccidendo il silenzio, l’uomo uccide Dio. Ma allora, chi aiuterà l’uomo a tacere? Il suo cellulare suona in continuazione, le sue dita e il suo spirito sono sempre occupati a inviare messaggi… il gusto della preghiera è probabilmente la prima battaglia della nostra epoca” (p. 69).
E’ un quadro desolante della nostra società in preda a un delirio di distruzione di massa delle relazioni sociali. Razzante offre qualche risposta dopo avere ricordato che: “I propri profili social non sono zone franche nelle quali potersi abbandonare a sproloqui e invettive, dando sfogo alle proprie pulsioni individuali”. Il libero pensiero deve tenere conto della compostezza dei comportamenti che non devono mai sfociare nella polemica distruttiva. “Non esiste corretto esercizio della libertà di espressione senza tutela dei diritti della personalità altrui. La divulgazione di notizie e commenti richiede un costante bilanciamento tra la libertà di informazione e la protezione di diritti ugualmente meritevoli di tutela”.
infatti per Razzante c’è la necessità di introdurre soprattutto nel mondo della scuola, dei “nuovi codici di autoregolamentazione rigorosi e condivisi”. Una proposta di buon senso che potrebbe di certo aiutare le nuove generazioni a comunicare nel rispetto del prossimo e di sé stessi. Tuttavia, quello che accade nel web e sui social è anche espressione di una crisi antropologica che parte da lontano. E che da ultimo affonda le proprie radici nel ’68 e nell’abbattimento della figura del padre come simbolo di ogni autorità.
È quindi necessario proporre un itinerario qualitativamente analogo, ma di senso contrario a quello che ha portato a vedere il prossimo come un nemico da annientare invece che come una persona cui rivolgersi in una relazione umana che risponda al naturale bisogno di socialità dell’uomo. Un processo lungo e complesso che va attivato e consolidato con urgenza da chi crede che sia ancora possibile costruire una società migliore di questa.
DOMENICO BONVEGNA
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