Il mio soggiorno a Torino, mi ha dato l’opportunità di visitare le tante opere create dal beato Faà di Bruno, uno dei tanti pilastri della santità sociale sbocciata nell’Ottocento torinese e piemontese. Con grande emozione ho percorso le strutture realizzate dal beato, una vera «cittadella delle donne», sita nel quartiere San Donato a Torino. Io che avevo conosciuto il Faà di Bruno, leggendo quasi trent’anni fa lo splendido volumetto di Vittorio Messori, «Un italiano serio», edito dalle Paoline nel 1990.
Il libro di Messori ha squarciato l’oblio, sul grande campione della carità e della solidarietà degli ultimi. Infatti, le cose cominciano a cambiare in meglio dopo la sua beatificazione. E soprattutto dopo la biografia approntata dal giornalista cattolico che viene diffusa in tutta Italia.
In questa circostanza ho conosciuto la Congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, in particolare, la postulatrice per la canonizzazione del beato, suor Carla Gallinaro, che mi ha donato degli ottimi sussidi sul beato per studiarlo meglio. Inoltre ho avuto la possibilità di visitare il prezioso Museo, dove si possono ammirare tra l’altro alcune invenzioni create dal beato, e il suggestivo campanile alto ben 83 metri, che ho percorso con una certa fatica, insieme alla guida, Manuela Sasso.
Il beato Faà di Bruno è nato nel 1825 e morto nel 1888. Faà di Bruno è coetaneo di tanti altri santi, vissuti nello stesso periodo come san Giovanni Bosco, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Leonardo Murialdo, san Giuseppe Cafasso.
Un sacerdote torinese, in uno studio accurato, ha raccontato la straordinaria opera evangelizzatrice e sociale della Torino Sabauda, del solo Ottocento. Si tratta di una miriade di “santi”, eccezionali, alcuni canonizzati dalla Chiesa, altri no. Il sacerdote ne contati almeno 90 tra santi, beati, venerabili e servi di Dio. Ma l’elenco addirittura si può allargare a quasi 200, di uomini e donne, di rilievo per la loro pietà e per il loro apostolato sociale. Per lo più laici e laiche, appartenenti a tutti gli strati sociali.
Tra l’altro domenica prossima, 21 ottobre, presso l’Istituto Faà di Bruno a Torino, sarà inaugurata una Mostra di quadri originali di alcuni (per la precisione 39) di questi santi, beati e servi di Dio, dipinti dalla pittrice Anna Volpe Peretta.
«Il XIX secolo vede sorgere a Torino e nel Piemonte, in un contesto politico e storico avverso alla Chiesa, una moltitudine di opere caritatevoli promosse da decine di sacerdoti e consacrati in risposta ai cambiamenti in atto di una società in rapida trasformazione per gli effetti della prima industrializzazione […] Oggi il ricordo di questi uomini e il loro operato è mantenuto dalle attività di istituti e congregazioni religiose fondate grazie ai loro carismi» (Daniele Bolognini).
Il professor don Giuseppe Tuninetti, presentando la Mostra, paragona l’innumerevole schiera di santi piemontesi a una stupenda sinfonia di santità: «Quella della sinfonia mi sembra una immagine adeguata a descrivere la sorprendente fioritura di varia santità operata da Dio in terra piemontese ai tempi di Faà di Bruno e certificata dalla Chiesa attraverso i processi di canonizzazione […]».
In pratica nella Torino liberale e massonica di quel tempo, da una parte c’erano nobili, ricchi che approfittavano della povera gente, in particolare di quelle ragazze dette «servette», dall’altra c’erano questi apostoli della carità che si prodigavano di lenire le sofferenza della povera gente. Infatti, scrive Messori: «Mentre i governi liberali, spesso ispirati dalla massoneria, non solo poco si curano dei poveri, ma tassano loro persino il pane (“il macinato“) e sequestrano i figli per anni e anni di servizio militare, mentre il nascente socialismo distribuisce parole e opuscoli, preoccupandosi più della ideologia che della miseria concreta, ecco i cattolici “papisti“, i disprezzati “clericali reazionari“ scendere in campo ad aiutare di persona affamati, malati, ignoranti, abbandonati. Non solo lavorando ma alzando la voce contro tanto bisogno che i ricchi vogliono ignorare». (V. Messori, I Santi sociali (e Papa Francesco)? Tutti ‘intransigenti’ nella fede, 18.5.13, Corriere della Sera)
Una enorme schiera di uomini e donne di Chiesa piemontesi che si sono piegati sulle sofferenze degli ultimi, e che potrebbero dare tante risposte alla Chiesa attuale che sta soffrendo a causa dei troppi episodi incresciosi, che vedono coinvolti religiosi colpevoli di abusi sui minori e sostenitori dell’ideologia gender e dell’omosessualità.
Per la verità questi «santi» potrebbero dare risposte anche al mondo laico, alla società, al mondo del lavoro. Basta conoscere quello che hanno fatto per impiegare i loro metodi per risolvere concretamente i vari bisogni della povera gente.
Per certi versi questi santi rappresentano una provocazione; nella storia ufficiale si è parlato troppo di Garibaldi, Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele e altri patrioti, si è parlato di guerre, di libertà, di fare l’Italia. «A Torino c’era qualcuno che, invece di fare l‘Italia, pensava a fare gli italiani. C’erano i santi, appunto. Tanti. Nessuno si chiede perché fossero così numerosi, per le strade di quella stessa Torino risorgimentale. Mentre i re e i condottieri si occupavano della geografia, loro facevano la storia. Prendendosi cura degli italiani che già c’erano e che pagavano sempre il prezzo più alto. I poveri, gli straccioni, i bambini di strada, le prostitute, i carcerati. Migliaia di italiani abbandonati a se stessi dai potenti e dalla Storia. I santi volevano far risorgere gli italiani, prima che l’Italia. Giusto pensare ad una patria unica e unita. ma prima le persone. E così, mentre re e generali mandavano a morte, c’è un manipolo di santi che soccorrono e salvano, nella più pura testimonianza del Vangelo della carità e del buon samaritano.
Dicono che i cattolici non hanno fatto il Risorgimento. Di certo hanno fatto l’altro Risorgimento. Quello che i libri di storia non raccontano, quello della vitas quotidiana della gente qualunque che aveva il cruccio di non morir di fame. Se abbiamo una patria e un sentire comune lo dobbiamo certo ai condottieri. ma forse di più ai santi che, in mezzo alla tempesta della guerra, dell’odio e della discriminazione religiosa, hanno fatto il Risorgimento delle coscienze”. ( Domenico jr Agasso, Renzo Agasso e Domenico Agasso, il risorgimento della carità. Vita e opere di uomini e donne di fede, Effatà editrice)
In questo vasto panorama della santità piemontese, si inserisce la singolarità del beato Francesco Faà di Bruno, che pur avendo in comune con molti l’essere fondatore e prete, presenta alcune specificità: fu un militare, partecipò alla prima guerra d’indipendenza; fu un uomo di cultura scientifica, fu professore all’università di Torino, ricercatore e autore di pubblicazioni scientifiche di livello europeo, realizzò diverse invenzioni come l’ellipsigrafo e uno scrittorio per ciechi.
A cent’anni dalla morte, il 25 settembre 1988, viene proclamato beato da san Giovanni Paolo II. Nell’omelia l’ha definito: «un profeta in mezzo al popolo di Dio», un «gigante della fede e della carità».
Faà di Bruno visse a Torino proprio negli anni cruciali della formazione del Regno d’Italia. «In un’epoca in cui la scelta tra scienza e fede sembrava obbligata, egli seppe mostrare con l’esempio della sua vita come si può essere allo stesso tempo ottimi scienziati, grandi innovatori e ferventi cattolici, diventando un esponente di quel cattolicesimo sociale che a Torino trovò una delle massime espressioni. Dotato di un’incredibile capacità di lavoro, fu militare e cartografo, musicista e filantropo, architetto, inventore, giornalista ed editore; si applicò particolarmente agli studi matematici, in cui eccelse raggiungendo una fama di livello internazionale. Le sue convinzioni, in un’epoca sicuramente ostile alla religione, gli procurarono la costante opposizione dei dirigenti dell’Università di Torino, che mai riconobbero il suo valore e mai vollero concedergli la cattedra da professore ordinario che sarebbe stata il naturale compimento della sua brillante carriera scientifica. Fu allievo a Parigi del matematico Augustin Cauchy, che lo introdusse nella Società di san Vincenzo de’ Paoli. Fra le molte iniziative che testimoniano l’impegno sociale di Faà di Bruno a Torino, ricordiamo: il piano per il risanamento igienico-idrico della città con la costruzione di bagni e lavatoi pubblici, l’istituzione di fornelli economici, la creazione di una biblioteca mutua circolante, la fondazione dell’Opera di Santa Zita, una casa di accoglienza per donne lavoratrici che s’ispirava all’Oeuvre des Servantes di Parigi».(Cinzia Di Gianni, Italia 150: santi sociali e sacerdoti scienziati in Piemonte, gennaio 2011, Documentazione interdisciplinare scienza & Fede [DISF.org])
Ci sarebbe molto da scrivere sul beato Faà di Bruno, in futuro, certamente farò un intervento accurato sulle sue numerose opere e in particolare sul suo apostolato rivolto alle donne, a quelle più bisognose di aiuto. Ha fatto bene l’ultimo numero di novembre 2018 del bollettino delle suore Minime di N.S. Del Suffragio, «Il Cuor di Maria», a dedicare un inserto su «la condizione femminile». «Non dovrebbe stupire – ha scritto il prof. Giacomo Brachet Contol, direttore del bollettino – se in casa di Francesco Faà di Bruno desideriamo parlare della condizione della donna: basta richiamare alla mente le varie opere di Borgo San Donato, da Santa Zita alla Congregazione delle Suore Minime di N. S. del Suffragio».
Per il momento voglio concludere con una domanda provocatoria, fatta dal dott. Mario Cecchetto, nel suo intervento del Convegno di Studi del 2003, organizzato dal Centro Studi Francesco Faà di Bruno in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e l’Istituto per i Beni Musicali in Piemonte. Il Cecchetto si domandava come mai questo santo è stato sistematicamente dimenticato, per giunta anche da storici piemontesi. «Due potrebbero essere le ragioni di questo ostracismo.
La prima, antica, dipende da Faà di Bruno stesso; la sua profonda ritrosia a mettersi avanti, a farsi conoscere, a battere la grancassa su quanto faceva, unita ad una pervicace volontà di nascondersi, è pienamente riuscita. La seconda ragione ci chiama direttamente in causa: non siamo stati capaci di farlo conoscere». A questo punto lo studioso, cita alcune opere biografiche sul beato, in particolare del Berteu o quella di monsignor Pietro Palazzini, che oltre a essere state pubblicate molti anni fa, hanno avuto poca diffusione.
Domenico Bonvegna