18,57 del 9 novembre 1989. Il “mio” muro

18,57 del 9 novembre 1989. Il “mio” muro: mi sono svuotato (volentieri e lo rifarei) il portafogli, consumato le scarpe a camminare, le mani a scrivere e ciclostilare volantini, il corpo e il tempo ad andare per strada ad attaccare manifesti con la colla fatta di acqua e farina.

 

Ho usato tanta parte del mio tempo ad organizzare viaggi e spedizioni di decine e decine di persone che rivendicavano la necessità politica degli Stati Uniti d’Europa: da Ginevra a Bruxelles, da Mosca a Washington, da Atene a Madrid, da Istanbul a Londra, da Parigi a Varsavia, da Amsterdam a Tel Aviv, da Vienna a Praga, da Budapest a Bucarest, da Belgrado ad Ankara… e lì, a Berlino ovest, sotto quel muro, che all’epoca c’era ed era ben solido e dove, nel 1985, alle 8,15 del 6 agosto, avevo organizzato il ricordo del quarantennale del lancio della bomba di Hiroshima in Giappone nel 1945.
Qualcuno ha scritto: il muro che ha fatto più morti quando era in piedi che non quando è crollato. Una battuta, ma è vero.
Ero stato a Berlino ovest tanti anni fa con il muro tutto intero, ero arrivato con quel ponte aereo che la Pan American garantiva essenzialmente da Monaco e Francoforte, ero andato in una sorta di spedizione liturgica a vedere il  Checkpoint Charlie, con quel piccolissimo museo di poche stanze dove venivano mostrati i mezzi e le storie di fuga, andate bene e andate male. Lo stesso museo dove sono tornato ad agosto del 2019 con mia figlia tredicenne, nello stesso punto, solo più grande ma uguale e strapieno di visitatori. Al Checkpoint Charlie sembrava di essere in un film di spie della guerra fredda, la rabbia mi assaliva ma me la tenevo per me, razionalizzavo, osservavo per capire meglio, soldati in divisa che incutevano timore e le facce dure e contrite, anche quelle dei soldati Usa. Altrettanta spedizione liturgica su una delle tante scale con ballatoio che consentivano di vedere oltre il muro, verso est, dove dalla torrette e ovunque i vopos della DDR scrutavano con
cannocchiali tutte le foglie che si muovevano, e tra le foglie la mia testa su quella scala, che guardava come un bimbo osserva il frutto proibito.
Alle 18,57 del 9 novembre 2019 ero a casa, a Firenze, seguendo una lezione di pianoforte di mia moglie, che riceve una telefonata da suo padre, militare Usa in pensione al di là dell’Atlantico, per chiederle se stava vedendo la tv. Ci blocchiamo, accendiamo e rimaniamo incollati allo schermo e cominciamo a piangere e ad abbracciarci, telefoniamo agli amici delle nostre spedizioni nel mondo, singhiozzando con loro ci sentiamo più forti, appagati ma non soddisfatti, ricordiamo che solo tre mesi prima, in piazza San Venceslao a Praga avevamo aperto uno striscione che perorava il crollo del muro e la la nascita degli Stati Uniti d’Europa. E’ stata anche “colpa” nostra? Non importava. Il muro era crollato.

Di seguito un lancio di oggi dell’agenzia stampa Agi che a mio avviso ben descrive Berlino in quel momento:

Qualcuno pensa che il Muro di Berlino sia caduto per sbaglio. Ma e’ certo che sono le 18.57 del 9 novembre 1989 quando l’immensa cicatrice di pietra, cemento e filo spinato che aveva diviso Berlino e la Germania si sbriciola davanti al mondo e alla storia: e’ a quell’ora, in diretta televisiva, che Guenter Schabowski – un importante membro del Politburo – pronuncia, con l’aria di uno che non sa esattamente cosa sta dicendo, le parole che aprono il Muro, condannano a morte la Ddr e abbattono per sempre la Cortina di ferro, e con lei la suddivisione del mondo in due blocchi contrapposti. E’ rispondendo alla domanda di un cronista italiano, Riccardo Ehrmann, che Schabowski guarda confusamente i fogli che ha in mano e annuncia, un po’ stordito, che “ci siamo decisi a varare un regolamento che permette ad ogni nostro concittadino di espatriare attraverso i passaggi di frontiera della Ddr”. Altri giornalisti incalzano, lui legge ad alta voce l’intero regolamento in burocratese
strettissimo, quelli insistono: “Da quando entra in vigore, da subito?”. Finalmente Schabowski crolla: “A mia conoscenza, da subito”. L’impatto della notizia e’ sconvolgente. Immediatamente migliaia di persone si dirigono verso i vari varchi del Muro e verso la Porta di Brandeburgo. Una folla che cresce sempre di piu’, eccitata, turbata, incredula. Come incredule sono le guardie di confine, che fino a poche settimane prima avevano l’ordine di sparare a vista. “Tutte le persone che marciavano per strada non sapevano se quella sera sarebbero tornata a casa sane e salve, ne’ cosa avrebbe comportato per la loro carriera o per i loro figli”, ha raccontato il pastore Rainer Eppelmann, uno dei principali protagonisti del movimento di protesta nella Ddr che precedettero il fatidico 9 novembre 1989. “Eppure in strada c’erano due milioni di persone! E io credo che questa sia una delle ragioni per cui tutto si e’ accelerato”.
Una situazione per certi aspetti surreale. “Ci dirigemmo verso il confine. Quando arrivammo c’erano gia’ cinquanta o cento persone. Sentivamo la gente che diceva: ‘Dai, apri! Schabowski ha detto che possiamo passare’. Ma le guardie non reagivano. Se ne stavano li’, stranite. Sembravano smarrite, indifese. Per diversi minuti non accadde niente, finche’ non ci rendemmo conto che, a quanto pareva, i soldati non potevano aprire la frontiera, quindi dovevamo pensarci noi. E cosi’ facemmo. Fu semplicissimo e passammo dall’altra parte. Camminammo per circa venti metri, poi ci fermammo. Tutti gli altri passarono la Bornholmer Bruecke ed entrarono in Occidente. Sembrava che tutta la gente di Berlino Est avesse avuto la stessa idea e, dopo aver visto che sempre piu’ gente stava varcando la frontiera, volesse vedere di persona cosa stava accadendo. Cosi’ iniziarono a varcarla anche loro. Noi ci fermammo e osservammo la scena. Per vedere quella gente e quelle facce gioiose o incredule o
dubbiose. Si abbracciavano l’un l’altro”. In pratica, tutti i varchi furono presi d’assalto. La folla diventava di ora e in ora sempre piu’ grande. Intorno a mezzanotte tutti i passaggi, compreso il famigerato Checkpoint Charlie, erano aperti. Il tutto trasmesso in televisione, con l’effetto di portare nelle strade ancora piu’ persone, mentre nei viali cominciarono i cortei delle macchine a suon di clacson impazziti. I berlinesi dell’est furono accolti entusiasticamente da berlinesi dell’ovest, molti locali nei pressi del Muro iniziarono a offrire birra gratis, persone che mai si erano incontrate in vita loro si abbracciavano, ridevano, piangevano, tantissimi si portarono da casa martelli e picconi per abbattere pezzi dell’odiata cinta che ha aveva tagliato in due la citta’ per 28 anni.

Tra i berlinesi dell’Est che si aggiravano increduli per le strade c’era anche Peter Praschek, oggi un dirigente di Deutschlandradio, allora un dissidente che aveva rinunciato al proprio lavoro di
insegnante e che era stato messo sotto osservazione della Stasi per il suo “atteggiamento negativo dal punto di vista ideologico-politico”.
“Il 9 novembre ero andato a prendere mia moglie e nostra figlia appena nata dalla clinica”, racconta. “Solo distrattamente vediamo le notizie in tv. Si aprono le frontiere? Proprio oggi? La mattina dopo prendo mio figlio di 3 anni e con la Trabant andiamo subito verso il varco della Bornholmer Strasse. C’e’ traffico, ma si riesce ad andare avanti. E davvero, le guardie di confine, mai viste cosi’ stressate ed insicure, ci fanno passare. Pochi minuti dopo ci troviamo nel bel mezzo del traffico di Berlino ovest, e con la Trabant facciamo numerose volte il giro intorno alla Siegessaeule, la Colonna della Vittoria.

Siamo andati dai parenti dell’ovest e allo zoo, abbiamo preso un bus a due piani, abbiamo mangiato un piatto intero di champignon: volevo che per mio figlio fosse un giorno da non dimenticare mai piu’ in tutta la sua vita”. Praschek sapeva bene cosa c’era in gioco. Da studente uno dei suoi piu’ cari amici era stato ucciso durante un tentativo di fuga dalla Ddr. Lui, a causa
di alcune battute pronunciate davanti ad altri studenti, era stato interrogato per ore: “Ero considerato uno sospetto”, racconta oggi. Militante del movimento Bundnis 90, nel giorno della visita di Stato di Mikhail Gorbaciov, partecipo’ ad una manifestazione presso la Gethsemanekirche a Prenzlauer Berg dove per un soffio non fu malmenato dagli agenti. “Precedentemente tre volte ero riuscito ad andare in Germania Ovest, sfruttando i rari permessi per andare a visitare i parenti: avevo detto che dovevo andare da una cugina per il battesimo. Ma non c’era nessun battesimo e nessuna cugina. Il fatto e’ che non volevo stare dall’altra parte. Avevo sempre pensato che la cosa piu’ giusta che l’Ovest venisse da noi. E, alla fine, cosi’ e’ stato”. Ovviamente il 9 novembre 1989 non nacque dal nulla. Ancora ad inizio dell’anno il leader supremo Erich Honecker aveva affermato che il Muro sarebbe “durato altri 100 anni”. Poi ci furono le manifestazioni, sempre piu’ imponenti, a Dresda, a Lipsia,
a Berlino, la fuga di migliaia di tedeschi dell’est nelle ambasciate della Germania occidentale a Praga, l’apertura dei confini ungheresi, le dimissioni di Honecker, la folla che inneggiava a Gorbaciov che al quarantennale della Ddr aveva sibilato ai pietrificati leader di un Paese ormai sull’orlo della dissoluzione “chi arriva tardi sara’ punito dalla vita”. Fino alle ore 18.57 di trent’anni fa, quando uno stordito membro del Politburo pronuncia davanti alla tv parole che erano allo stesso tempo di condanna e di liberazione: “A mia conoscenza, da subito”.

Vincenzo Donvito, presidente Aduc