Con il nuovo governo, appena insediato, nasce una nuova stagione, una nuova opportunità per riproporre al Parlamento una problematica sociale fortemente sentita, ma mai risolta: l’affidamento dei figli di genitori separati. La legge 54 del 2006, introducendo l’affidamento condiviso, avrebbe potuto e dovuto non solo riconoscere ai figli i loro indisponibili diritti già acquisiti a livello internazionale, ma nello stesso tempo realizzare una forma di giustizia sociale nei confronti delle donne e madri.
Quella riforma nasceva, infatti, non per avvantaggiare i padri separati – come si è erroneamente sostenuto – bensì, tutto al contrario, per dare concretamente ai figli la duplice tutela loro spettante richiamando la componente paterna della famiglia, largamente latitante, ai propri doveri e alle proprie responsabilità. Il che al tempo stesso avrebbe assicurato alle madri il necessario contributo del partner.
Ripercorrendo – come d’obbligo, se una tesi giuridica vuole avere fondamento scientifico – i lavori preparatori che condussero a quell’intervento legislativo, ovvero il testo su cui si fondò e gli emendamenti ai quali fu sottoposto, è facile scorgere che a quel tempo (ma non troppo diversamente oggi) la percentuale di padri presenti, che partecipavano alla cura dei figli, non superava il 15%, come ricordato nell’introduzione alla pdl 66 del 2001. Curiosamente, tuttavia, le fortissime resistenze che incontrò quel provvedimento, nonché gli interventi distruttivi che subì, vennero tutti dall’ala del Parlamento che si autodefinisce “progressista”. Dava fastidio, e dà tuttora fastidio, a soggetti che si autoproclamano tutori e difensori della donna, la piena e reale condivisione dell’affidamento.
Più chiaramente, subendo quello che si potrebbe definire “complesso di Esaù”, si è cercato e si cerca di creare resistenze nella componente femminile della società nei confronti di una paritetica condivisione delle responsabilità genitoriali, sventolando quel provvisorio vantaggio che acquista il genitore definito “collocatario” (arbitrariamente, perché la norma prevede simmetria ed equilibrio), in termini di potere di gestione dei figli e di percezione di un assegno. Complesso di Esaù, perché quel piatto di lenticchie (spesso scarse e contestate) comporta il sacrificio ben più pesante della propria vita privata e delle possibilità in ambito lavorativo. Un’ottica miope fa acquistare quel modesto guadagno nell’immediato al prezzo di fatiche e responsabilità per un tempo che può durare anni e anni; ovvero, secondo giurisprudenza consolidata, fino all’indipendenza economica dei figli. Una giurisprudenza, d’altra parte, che evidenzia e sottolinea la responsabilità delle istituzioni. Sì, perché le scelte delle protagoniste che sembrano partorite da loro stesse, in realtà sono pesantemente condizionate da pressioni esterne, più o meno consapevoli. Quella squilibrata investitura così frequentemente richiesta dalle madri è spesso l’effetto dei messaggi che provengono dalle istituzioni. Da quei tribunali che sfornano in continuazione protocolli e prestampati che anticipano e promuovono il concetto di maternal preference, puntualmente verificato dalla giurisprudenza che ne consegue; la quale a sua volta condiziona l’avvocatura, indotta a mantenersi in linea con essa facendo da ponte con le clienti. E’ per questa via che la donna, pressoché ineluttabilmente, viene spinta ad occupare il penalizzante ruolo di genitore prevalente. Una situazione che, proprio perché ha come protagoniste le istituzioni, è più difficile da contrastare, e finisce per rappresentare una vera e propria “violenza sociale”. Intrinsecamente e pesantemente maschilista.
Ancora una volta, curiosamente, sono proprio i cosiddetti “progressisti”, che quotidianamente si autoproclamano difensori della donna e lamentano ogni forma di violenza a suo carico – fisica, psicologica economica ecc- e che a parole rivendicano giustissime pari opportunità nell’ambito dell’occupazione e della carriera, coloro che più di ogni altro sostengono e suggeriscono la collocazione prevalente dei figli presso la madre in caso di separazione. Con tutto ciò che ne consegue, a tempo indeterminato. Ovviamente si può attribuire una parte di queste responsabilità ai padri, ben pochi dei quali effettivamente si danno da fare per ottenere maggiori spazi e una maggiore partecipazione alla cura dei figli. Certamente. Tuttavia la legge sull’affidamento condiviso è stata pensata proprio per incrementare quella partecipazione eliminando l’alibi fornito dalle istituzioni grazie a una norma che prevedeva la scelta del “genitore più idoneo”, tipicamente la madre.
Quindi è del tutto illogico sostenere quel modello e allo stesso tempo lamentare la penalizzazione del mondo femminile.
Purtroppo a questo tipo di infelice posizionamento ideologico si affiancano altre visioni – arcaiche, anacronistiche e altrettanto penalizzanti per la donna nella vita sociale – che intendono confinarla nel mondo domestico, relegandola nel ruolo pressoché esclusivo di caregiver dei figli. Ad esempio, potrebbe affermarsi che la forma più attuale della dottrina della maternal preference intende far leva su una presunta esclusività dei ruoli di padre e madre, in forza dei quali la presenza paritetica dei figli presso l’uno e l’altro genitore (ovviamente quando materialmente possibile) dovrebbe comunque essere negata in nome dell’incapacità per il padre di svolgere funzioni materne. Il padre dovrebbe continuare a svolgere la funzione di breadwinner, ossia produrre risorse economiche da trasferire alla madre attraverso l’irrinunciabile meccanismo del mantenimento indiretto, senza compiti di cura per il genitore detto “non collocatario”; ovvero dell’assegno, che secondo legge dovrebbe essere residuale. In altre parole, si intende sostanzialmente mantenere in piedi il vecchio modello monogenitoriale dell’affidamento esclusivo. Cosa che in effetti già avviene, ma surrettiziamente. Ovvero non si può fare a meno di osservare che la teoria dei ruoli specifici ne pretende addirittura la giustificazione, e con argomenti pressoché indifendibili. Basterebbe pensare che comunque il padre, anche se per tempi non uguali, si trova a dover svolgere le medesime funzioni prevalentemente attribuite alla madre, per cui, se davvero non ne fosse all’altezza (come si pretende), il sistema sarebbe ugualmente fallimentare. In altre parole, non si capisce perché un padre non dovrebbe riuscire a svolgere per sette giorni ciò di cui è accreditato per tre (periodi non scolastici a parte).
Tornando alle considerazioni iniziali di questa breve nota, non si può tacere che dichiarazioni scritte dell’attuale ministro della famiglia e delle pari opportunità vanno proprio nella direzione della rigida divisione dei ruoli tra padre e madre, con ciò implicitamente negando ai figli il diritto ad una vera e autentica bigenitorialità. Resta il fatto che quelle dichiarazioni furono rese all’interno di una valutazione critica del ddl 735 del 2018. Un disegno di legge ormai accantonato; per cui è lecito sperare che il ministro in carica voglia a sua volta riconsiderare tutto ciò che aveva esplicitato a quel tempo. Se non altro, poiché il medesimo soggetto si trova a doversi pronunciare non solo sugli assetti familiari, ma anche sulle pari opportunità. Dovrà quindi necessariamente rendere compatibili i due compiti.
Marino Maglietta, consulente Aduc