Due anni fa, in pieno inverno, moriva Sonia, giudice onorario presso il Tribunale di Bologna. Lavorava alla sezione sfratti: abitava ad Arcore e ogni lunedì prendeva un treno locale, cambiava a Milano, e, puntuale, iniziava alle nove la sua affollatissima udienza nel capoluogo emiliano.
Le procedure di sfratto non sono controversie prestigiose e le convalide si accompagnano a situazioni difficili e drammatiche: il giudice è esposto alla carne viva di una umanità povera e dolente che spesso, priva di galateo giudiziario, non esita a portare con sé la prole, che espone in grembo, a mo’ di ricatto morale, tra sé ed il Giudice. Sonia assisteva a scene come questa ogni settimana, ma era un giudice pietoso e aveva sempre a cuore il sollievo di chi le era davanti. Due giorni prima di morire, a causa di un tumore cerebrale fulminante, aveva tenuto regolarmente udienza, facendo il proprio dovere di magistrato: quel giorno, però, pare che non sia riuscita a portare a termine l’udienza perché stava troppo male. Dopo essere riuscita a prendere il treno per tornare a casa, mancò la sua fermata e finì alla stazione di Milano centrale, dove il marito corse a prenderla. Non si riprese più, e l’indomani moriva all’ospedale di Monza.
Solo una sparuta pattuglia di suoi colleghi onorari attraversò la pianura padana per recarsi ad Arcore a rederle l’ultimo saluto. Volevano tutti fortemente che da Bologna, luogo distante dalla sua zona, ma dove lei aveva fatto così tante cose buone ed importanti, venisse qualcuno a dire ai suoi cari: Sonia era un giudice bravo ed onesto, ha compiuto il suo dovere fino alla fine e a noi dispiace che sia morta. Nessuna figura apicale del Tribunale in cui aveva lavorato per tanti anni ha ritenuto di inviare una corona di fiori, un telegramma, o una mail di cordoglio ….
Prima e dopo Sonia, e ancor di più in quest’anno di pandemia, sono tanti i colleghi che si sono ammalati o sono morti, abbandonati a se stessi o spariti come fantasmi, figure invisibili per lo Stato, per il Ministero, e persino per l’Ufficio in cui hanno prestato servizio quotidianamente, talvolta per decenni.
Colleghi morti senza diritti, così come senza diritti avevano vissuto.
Dopo anni di promesse e riforme mai attuate, qualche mese fa è giunto l’ ennesimo schiaffo del Ministro della Giustizia, il quale, in un atto parlamentare, ha spiegato che il deteriore trattamento dei magistrati onorari è giustificato “dalla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della magistratura professionale”.
Davanti ad un tale affronto, i magistrati onorari hanno capito che è finito il tempo di confidare nelle istituzioni, ed è giunto il momento di reagire.
Indossando le loro toghe, si sono dati appuntamento davanti ai Tribunali italiani stringendo in pugno una rosa rossa, rievocando così la protesta portata avanti nel 1912 dagli operai tessili di Lawrence e passata alla storia come “lo sciopero del Pane e delle Rose”, dai versi di una poesia del tempo: “Le nostre vite non devono essere sudate dalla nascita fino alla morte, i cuori muoiono di fame come i corpi, dateci il pane, ma dateci anche le rose. Mentre noi marciamo, innumerevoli donne morte gridano nel nostro canto la loro antica richiesta di pane. I loro spiriti laboriosi conoscevano poco dell’arte, dell’amore e della bellezza. Si, è il pane ciò per cui lottiamo, ma lottiamo anche per le rose”.
Oggi il pane quotidiano dei giudici onorari è rappresentato da un gettone d’udienza; le rose delle ferie, della maternità, degli infortuni, della malattia, del trasferimento, del congedo familiare, e perfino dei buoni pasto o della gratifica natalizia sono diritti ancora sconosciuti e negati.
Solo l’anno scorso, grazie ad una significativa pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la percezione del ruolo dei magistrati onorari è cambiata anche nella giurisdizione italiana, con alcune sentenze dei Tribunali di Vicenza, Napoli e Roma che hanno riconosciuto l’identità delle funzioni svolte dai magistrati onorari e dai magistrati di carriera e il diritto ad un trattamento economico e giulavoristico equivalente.
Lo Stato continua a essere sordo alle richieste di dignità e giustizia e i suoi funzionari e rappresentanti sembrano non comprendere che quella della magistratura onoraria non è solo una questione economica, ma è anzitutto una questione morale.
Per protestare contro il Ministro e il Legislatore, alcuni colleghi non si sono limitati a manifestare con le rose in pugno davanti al loro tribunale: Enza, Sabrina e Giulia di Palermo, Livio di Parma, Patrizia e Maria Antonietta di Cosenza, hanno deciso di portare avanti uno sciopero della fame! Iniziativa estrema, di cui forse la società, ma soprattutto la politica, sembrano non aver compreso la portata, e neppure si direbbe abbiano colto quanta rabbia, disperazione e dignità ci sia dietro una scelta così radicale.
Nell’Irlanda celtica e pre cristiana questa forma di protesta non violenta veniva chiamata con il termine “Cealachan” ed era disciplinata da regole ben precise: se una persona riteneva di aver subito un grave torto, poteva andare a digiunare sulla soglia di casa della persona che l’aveva offeso ingiustamente: ma quella società teneva in grande considerazione i valori dell’accoglienza e dell’ospitalità ed avere una persona che moriva di inedia davanti a casa propria era considerato come un gravissimo disonore.
Allo stesso modo Enza, Sabrina, Giulia, Livio, Patrizia e Maria Antonietta hanno atteso fuori dai tribunali dove prestano servizio che il loro datore di lavoro onorasse il suo debito.
Purtroppo, ancora senza esito.
Dopo quindici giorni di digiuno, durante il quale, per non incorrere nelle sanzioni minacciate dalla Commissione di Garanzia, ha continuato a tenere udienza, Enza ha perso i sensi ed è svenuta: l’udienza è stata interrotta, la giudice è stata soccorsa e portata via in ambulanza.
Fin dove deve spingersi un operatore della giustizia, per avere anche lui giustizia?
Il Direttivo AssoGOT