Daxing, stampiamolo bene in mente questo idioma cinese che sta per “grande prosperità”, ché da oggi e per i prossimi anni lo vedremo sempre più presente. E’ il nome del nuovo aeroporto di Pechino inaugurato in questi giorni. Dicono che sia il più grande al mondo, per “battere” altri grandi che erano anche cinesi.
Sì, perché “battere” è uno dei motivi conduttori delle politiche cinesi di ogni tipo da quando si sono accorti che il maoismo si afferma meglio con la tecnologia e l’esportazione di modelli e ricchezze così come li concepiscono loro. Negli anni scorsi erano le “cineserie”, chi non ha mai comprato qualcosa “made in China” pagandolo pochissimo rispetto ad equivalenti oggetti fatti altrove e che in questi “altrove” hanno anche rinunciato a farli perché distrutti dai “modelli” cinesi.
Una volta erano i giapponesi che, turisti da noi, non facevano altro che fotografare tutto e quel “tutto” in qualche modo finiva anche nelle loro perfette ed economiche imitazioni che arrivavano anche sui nostri mercati.
I giapponesi praticamente non ci sono più in questi termini, visto che hanno sviluppato una loro tipologia nei mercati. Ma ci sono i cinesi, che non vengono con le macchine fotografiche a copiare i nostri modelli perché, a differenza dei giapponesi che agivano in una logica di mercato, i cinesi hanno lo Stato che pensa a tutto. Non è che manchino i turisti cinesi, ma sembra che pensino a fare solo i turisti, che al resto ci pensa per l’appunto lo Stato.
La filosofia del “battere” sta dilagando in tutto il Pianeta e in tutti gli ambiti. E’ di oggi la notizia che il primo e secondo posto ai mondiali di atletica di Doha, per i 50 Km di marcia, è andato a due cinesi. Ci sono venuti in mente gli atleti della ormai estinta DDR che primeggiavano dovunque ché il loro Stato voleva imporsi al mondo coi suoi primati atletici (poi scoperti tali grazie ad ormoni a go-go), e – se pure con meno enfasi – quelli della ex-Urss.
Tornando all’aeroporto Daxing, i numeri sono da capogiro, di per sé e per l’indotto nazionale ed internazionale. Quello che ci teniamo a rilevare qui è che “entro vent’anni il traffico annuale nei cieli cinesi raggiungerà 1,6 miliardi di passeggeri, gli aeroporti commerciali nella Repubblica saranno 450 nel 2035, il doppio rispetto a oggi”.
Il commento medio del cosiddetto uomo della strada potrebbe essere: “beh, non è già cosi in Usa e in Europa, dove diversi aeroporti enormi sono al collasso perché non in grado di soddisfare la domanda; e non è, pur con dimensioni diverse, in tutto il resto del mondo?”. A cui noi aggiungiamo che sono già in corso iniziative per rimediare alla carenza, tra cui la recente inaugurazione del mega aeroporto di Istambul è solo la più recente e la prima di una probabile grande serie.
Tutto questo accade mentre all’ONU Greta Thunberg ha fatto il suo appello a tutti gli Stati del mondo sull’urgenza di iniziative contro il cambiamento climatico, coronandolo con le manifestazioni planetarie dello scorso 27 settembre. La giovane svedese è giunta a New York in barca a vela per significare la sua indisponibilità a contribuire all’inquinamento col mezzo di trasporto colpevole per eccellenza, l’aereo.
Ad ascoltarla, e crediamo anche ad applaudire ché altrimenti non si può fare (per cortesia) all’ONU, c’erano anche i cinesi. Che a differenza del presidente Usa Donald Trump non hanno fatto battute sul discorso e sulla presenza della militante ambientalista nel Palazzo di Vetro. E a differenza della maggior parte degli europei, e di tanti altri, i cinesi non hanno detto che la Thunberg aveva ragione. Per cui, ai cinesi, nessuno ha dato attenzione.
Ora, mettiamo insieme la barca a vela della Thunberg con il procedere del modello industriale vigente e che dovrebbe essere il principale responsabile del cambiamento climatico.
Il confronto della barca con il mondo industriale “occidentale” è oggi diffuso, anche se ben lungi dall’incisività auspicata. Ma il confronto con l’aeroporto Daxing e tutto il resto della Cina? Zero! Sottozero! I disperati giovani di Hong Kong stanno pensando e facendo altro.
Prospettive e ricadute del discorso della Thunberg e delle manifestazioni del 27 settembre? Se ne parlerà in occidente, magari anche in qualche Parlamento, non certo in quel dell’aeroporto Daxing.
Queste osservazioni ci fanno dedurre che oggi la politica non ha gli strumenti per affrontare il cambiamento climatico. Strumenti che invece hanno e stanno cominciando ad usare alcune (poche) industrie “occidentali” per loro singola scelta, anche di marketing.
Ma non la politica.
Che nei Paesi a regime democratico parlamentare “occidentale” si sta timidamente affacciando al problema, anche se per ora lo fa (anch’essa) più per marketing che altro. Ma questo non accade in Paesi come la Cina. E non accadrà. A maggior ragione, nei contesti tipo ONU, anche se, per esempio, la Cina, visti i suoi numeri assoluti, svetterà nei prossimi anni per provvedimenti a favore del clima. La politica del “battere” vale anche soprattutto in questo caso: è un modo di esplicitare le proprie capacità e conquistare i dubbiosi, che oggi sono tali per mancanza di risultati (benessere proprio e diffuso, ambientale) nei propri contesti civici che, tra l’altro, spesso non fanno molto
per farsi amare e comprendere (il calo dei partecipanti alle elezioni è sintomatico).
La politica dovrebbe darsi una scossa (grazie anche ai cortei dello scorso 27 settembre) e fare attente e ponderate riflessioni ed azioni. A partire dal fatto che per far sì che le cose siano durature ed incisive, occorre coinvolgere gli amministrati in un regime di consapevole democrazia, che si affermi anche lì dove esistono democrazie che sono solo la razionalizzazione del potere dello Stato e/o del partito. O qualcuno crede che si possa giungere ad un equilibrio climatico, rivedendo le politiche economiche consolidate e in corso, grazie anche agli aeroporti Daxing, alle logiche e decisioni che sottostanno ad un modello di espansione monopolista e/o statale? La “riforma” della politica a livello planetario? Può anche darsi, ma con meno ambizione occorrerebbe “solo” convincersi, attrezzarsi e mobilitarsi perché all’attuale primato dell’economia nei rapporti tra gli Stati si aggiunga un maggior valore al primato dei diritti umani, del rispetto degli individui, e
della partecipazione determinante di questi ultimi alla formazione dei parlamenti e dei governi.
Dobbiamo, altrimenti, rassegnarci al fatto che i nostri nipoti moriranno annegati e/o asfissiati? E per questo ballare e brindare mentre il nostro Titanic planetario affonda?
Vincenzo Donvito, presidente Aduc