Cento anni ben portati di Franz Kafka

In uno dei suoi Pensieri Leopardi annotava come il ricordo di particolari ricorrenze sia soprattutto una consuetudine per uomini “sensibili e usati alla solitudine”[1].

Le ricorrenze possono essere anche dei calmieri contro l’angoscia che deriva dall’imprevedibilità del futuro, perché, dando questa volta ascolto a Elias Canetti, «nel calendario, con i suoi immutabili anniversari, si riconosce una garanzia per ciò che verrà»[2]Ricorrenze, compleanni e anniversari si prestano poi a più o meno grate e gioiose celebrazioni. Un anniversario finisce con l’avere sempre in sé qualcosa di istruttivo o minaccioso. Così promette di essere, ad esempio, il centenario della morte di Franz Kafka. Istruttivo per gli insegnamenti che potrà eventualmente riservare; minaccioso perché Kafka – ci si passi il bizzarro gioco di parole – è il più kafkiano degli scrittori che si possa avere la ventura di leggere. Se possa essere più l’una o l’altra cosa è difficile dirlo. Certo è che il centenario offrirà l’occasione per fare i conti con l’eredità di uno scrittore che – cosa di cui siamo convinti – continua ad avere ancora tanto da dire.

Pro e contro Kafka

È stato nther Anders a pensare tra i primi che Kafka potesse diventare nel tempo qualcosa (un’entità astratta, una Stimmung, un fenomeno, un’etichetta) che va oltre l’identità storica dell’autore che tutti conoscono, e che il suo nome potesse venire associato a un modo particolare di rappresentare e vivere la realtà. Molto probabile, perciò, che la tesi di Anders, che non mira a negare gli indiscutibili meriti letterari dell’opera kafkiana, possa venire riproposta nell’anno del centenario della morte dello scrittore praghese. Quando, nel 1951, Anders la formulò, Kafka era ormai diventato un consolidato caso letterario. La fortuna editoriale dell’autore della Metamorfosi e del Processo aveva avuto inizio e il timore di Anders era che venisse codificata in una moda, un cliché estetico, come se quello kafkiano fosse anche, se non prevalentemente, un modo di interpretare e vivere la vita. A farlo pensare a generazioni di lettori è stato, d’altronde, lo stesso Kafka. I passaggi testuali che possono documentarlo sono numerosi e si trovano soprattutto negli scritti privati, note diaristiche simili a meditabonde confessioni. «Ho affrontato gagliardamente – ha scritto Kafka in uno dei suoi diari – quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere, ma, in un certo senso, di rappresentare. Non ho ereditato alcuna parte, invece, dello scarso patrimonio positivo del mio tempo o di quelle punte così esasperatamente negative da convertirsi addirittura in positive. Non sono stato condotto nella vita dalla mano del Cristianesimo, peraltro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto ancora afferrare, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello di preghiera ebraico che già volava via. Io sono fine o principio»[3].

Essere la fine e, nello stesso tempo, il principio, l’alfa e l’omega, l’origine e la destinazione ultima: c’è senza dubbio più di un elemento ricercatamente profetico e ieratico in un’affermazione simile. Verrebbe da pensare alla sarcastica solennità di certi testi nietzschiani, se solo l’autore con cui abbiamo a che fare non fosse l’enigmatico, beffardo, ironico, tormentato Kafka, il quale ha ragioni da vendere quando sostiene di avere intrattenuto un rapporto molto stretto con il proprio tempo, assimilandone lo spirito negativo, mai tentato – così parrebbe – da folgorazioni religiose e tardive cause di riscatto politico. In tal modo definendosi, fa di sé stesso un prototipo interpretativo, perché quella dello scrittore praghese è la stessa condizione dell’uomo contemporaneo, che determinate circostanze (l’appartenenza al mondo ebraico, fra le diverse e fra quelle maggiormente considerate dalla critica) hanno amplificato nella sua percezione. Non un caso limite, non un’eccezione, e nemmeno uno standard o una norma assunti nella loro ordinaria prevedibilità, perché, se così fosse, il Kafka che racconta l’uomo, rivelandone abissi e fragilità, rappresenterebbe solo un’umanità dal profilo piatto e insignificante. Ma così non è, come insegnano molti dei protagonisti delle sue opere: Karl Rossmann (America), Josef K. (Il processo), K. (Il castello), Gregor Samsa (La metamorfosi), Georg Bendemann (La condanna), personaggi verso i quali il lettore può raramente provare una qualche simpatia, pur essendo portatori di un muto bisogno di solidarietà, comprensione e accettazione, non meno di quanto lo sia stato il geniale autore che li ha messi al mondo. D’altronde, come lo stesso Kafka ha scritto nei suoi Diari, «il commercio con gli uomini ci seduce a osservare noi stessi»[4], intendendo dire con queste parole che nella vita sociale, per quanto ci si perda e renda anonimi, non potremo, comunque, mai sfuggire al nostro stesso sguardo.

L’uomo di Kafka

Il vero soggetto kafkiano è perciò l’uomo. Un certo tipo di uomo, sarebbe forse meglio dire. Soggetto e cavia, perché sottoposto alla duplice azione di una lente d’ingrandimento che mira a definirne e penetrarne i contorni della personalità. Soggetto, per così dire, poco “collaborativo”, perché capace di dissimulare l’interesse per la vita. Da mettere alle strette, allora, facendo di ogni romanzo e racconto un terzo grado che lo tenga sotto scacco, se necessario anche barando, come accade allo sventurato Joseph K. del Processo, che si consuma e dispera nel tentativo di comprendere quale buona ragione possa avere la giustizia per chiamarlo in causa. Quella che si percepisce in quelle pagine memorabili è l’inquietudine che scorre sotto la pelle di ogni uomo tutte le volte che, come direbbe Jaspers, la vita s’imbatte in una situazione-limite[5]. Una di queste potrebbe essere lo stato di afonia in cui, esaurita l’ultima scorta di belle parole e venuto meno il loro potere consolatorio, potrebbe cadere l’uomo. È questo il tema di una delle tante lettere di Kafka. «Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto. In fondo non è forse altro che quella paura, della quale si è parlato tante volte, ma paura estesa a tutte le cose, paura delle cose più grandi come delle più piccole, paura, convulsa paura di pronunciare una parola. È vero che questa paura non è forse soltanto paura, ma anche nostalgia di qualche cosa, e ciò è più di tutto ciò che suscita paura»[6].

La blatta che conquisterà il mondo

Quella che nasce dalla “nostalgia di qualche cosa” e che, per questo motivo, appare più minacciosa sembra essere una paura antica. Simile all’atavica paura dall’uomo provata nei confronti di altre forme di vita animale. Viene da pensare ai tanti esemplari del mondo animale non umano che popolano le pagine di Kafka. Nel bestiario kafkiano topi, cani, scimmie, animali del sottosuolo non sono semplici elementi di contorno e nemmeno si prestano a interpretare il ruolo di alter ego dell’autore e dei suoi personaggi. Verrebbe da considerarli come le manifestazioni di una prospettiva rovesciata: l’umano animale che si confonde con l’animale non umano o l’azzeramento di una soglia che rappresenta ancora oggi una delle massime paure dell’uomo. In questo senso, l’angusta cameretta in cui Gregor Samsa sperimenta la dolorosa metamorfosi che lo trasformerà in scarafaggio è l’equivalente della foresta che Roberto Calasso eleva a unico spazio adatto per capire il mondo degli uomini: «regno aspro, folto, dove risuonavano solo voci di animali. Questo era il luogo metafisico. Nella foresta chi pensa è abbandonato a sé stesso, lì raggiunge il fondo altrimenti velato dal brusio umano, lì torna a somigliare all’animale selvaggio, che è la massima approssimazione al puro pensiero»[7].

L’animalità che assume in Kafka più di una forma ha una delle sue espressioni meglio riuscite nello scarafaggio della Metamorfosi. In quest’opera l’animalità si fa estrema, sconfinando immediatamente nell’abiezione e nel terrore apocalittico, frutto della constatazione che l’unico modo consentito all’uomo per salvarsi dalla fine del mondo sia quello di diventare una blatta, accettando il sottosuolo e le rovine di ciò che resterà – l’unico aldilà possibile, direbbe Anders – come destino e luogo in cui riparare. Potrebbe essere anche la via per sopravvivere alla violenza del mondo, di cui il nostro scrittore ha sempre avvertito un carico insopportabile. «Sono più incerto che mai, sento soltanto la violenza della vita. E – ha scritto nei suoi Diari, ricorrendo ancora una volta alla figura di un animale – sono insensatamente vuoto. Sono davvero come una pecora sperduta nella notte e sui monti o come una pecora che la rincorre. Essere così perduto e non avere la forza di farne lamento»[8].

 

[1] «Ed ho notato, interrogando in tal proposito parecchi, che gli uomini sensibili, ed usati alla solitudine, o a conversare internamente, sogliono essere studiosissimi degli anniversari, e vivere, per dir così, di rimembranze di tal genere, sempre riandando, e dicendo fra sé: in un giorno dell’anno come il presente mi accadde questa o questa cosa» (Giacomo Leopardi, Pensieri, a cura di Matteo Durante, Accademia della Crusca, Firenze 1998, p. 17).
[2] Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti (1942-1972), tr. it. di Furio Jesi, Adelphi, Milano, 1973.
[3] Franz Kafka, Confessioni e Diari, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori, Milano 1972, p.750.
[4] Ivi, p. 730.
[5] «Si parla di “situazione-limite” (Grenzsituation) per indicare, soprattutto con Heidegger e Jaspers, una particolare serie di stati ed esperienze estreme quali la morte e la paura. “Situazioni come quelle di trovarmi sempre in situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dovermi inevitabilmente assumere la colpa, di dover morire, sono quelle che io chiamo situazioni-limite”. Per Guardini, una situazione-limite è uno “stato soggettivo in cui l’uomo nella sua vita è intimo a sé stesso. L’intimità o l’interiorità appartengono all’essenza della vita”» (G. Pulina, Dizionario di antropologia filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2022, pp. 147-148).
[6] Kafka, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p. 876.
[7] Roberto Calasso, Ka, Adelphi, Milano 2007, pp. 410-411.
[8] Kafka, Confessioni e Diari, cit., p. 405.

Giuseppe Pulina, docente, giornalista, filosofo