Non siamo un Paese per giovani: non solo perché le nascite sono in costante calo, ma anche perché le nuove leve sognano diffusamente un futuro oltre confine, spesso senza biglietto di ritorno. Non solo: i ragazzi ormai hanno capito che l’ascensore sociale è “in panne”. A segnalarlo è “Dopo il diploma”, la ricerca condotta da Skuola.net su un campione di 3.200 alunni delle scuole superiori, in occasione della ELIS Open Week, l’evento organizzato da ELIS – realtà no profit che forma persone al lavoro – per avvicinare le aziende leader nei settori tecnico-tecnologici agli studenti. Solo il 39% degli intervistati, infatti, al momento esclude, dopo la Maturità, di andare all’estero per studiare o lavorare. La restante parte annovera questa ipotesi quasi come una certezza (17%) o come una delle alternative da valutare con attenzione (44%).
La fase più indicata per farlo, peraltro, secondo le ragazze e i ragazzi raggiunti dall’indagine, è proprio quella immediatamente successiva alla scuola. Il 43% dei “partenti” farebbe un percorso unico, formandosi all’estero – sia attraverso corsi di studio universitari e di terzo livello o muovendo i primi passi nel mondo del lavoro – per poi cercare un’occupazione stabile nel Paese d’accoglienza. Mentre il 41% prima proverebbe a gettare le basi in Italia per poi trasferirsi, nella speranza di avere più chance di crescita professionale fuori dai confini nazionali. Solamente il 16% farebbe il giro al contrario: studierebbe all’estero per poi tornare “a casa” con un bagaglio più ricco di esperienza.
Proprio quest’ultimo passaggio introduce al dato forse più preoccupante, fatto emergere dalla ricerca. La maggior parte dei giovani che guardano verso l’Estero, qualora si concretizzasse il trasferimento, non vede un possibile ritorno in patria. Neanche se ragiona sul lungo periodo. Il 20%, infatti, ha già messo tra le possibilità quella di rimanere fuori a vita. E un altro 43% tornerebbe indietro solo se l’esperienza dovesse rivelarsi particolarmente deludente. Alla fine, in caso di espatrio, a manifestare la voglia di tornare prima o poi, considerando l’Italia il proprio luogo d’approdo naturale, è solo il 37%.
“Il nostro Paese è nel pieno di un processo di trasformazione digitale ed ecologica che genera un aumento proporzionale delle opportunità di lavoro, ma si confronta con un vuoto informativo che genera disorientamento nei giovani e accresce la prospettiva di un lavoro all’estero – osserva Gianluca Sabatini, Responsabile Sviluppo Area Formazione di ELIS – Scuola, imprese, università e istituzioni non riescono a immedesimarsi nel vissuto post-adolescenziale, non riescono a costruire punti di contatto e un linguaggio che li avvicini a diciannovenni appena usciti dal porto sicuro della formazione. Manca un processo di sintesi, ma nella nostra esperienza questa sintesi è possibile. ELIS dialoga costantemente con le aziende e con giovani che non riescono a immaginare e tanto meno a costruire un futuro in Italia. Attraverso orientamento e formazione i ragazzi imparano ad accettare e affrontare le sfide professionali che li aspettano, scoprono le competenze che possono e devono acquisire per essere all’altezza dei loro sogni, trovano alla fine la strada per costruirsi un futuro. La maggior parte di loro nelle aziende con cui collaboriamo e che operano in Italia”.
Dinamiche, quelle appena descritte, che probabilmente affondano le proprie radici e trovano una loro ragion d’essere nel tipo di scelte che, per ora, immaginano di fare gli studenti con il diploma di maturità in tasca. L’università rimane la via maestra: oltre 1 su 2 vorrebbe provare a laurearsi. E, in quel caso, è evidente come il richiamo dell’estero possa essere davvero attraente in termini di prospettive di successo. E gli altri? Circa 1 su 10 vorrebbe cercare subito un lavoro, a cui si affianca una quota simile, interessata sì a un rapido ingresso nel mondo del lavoro, ma passando per un percorso professionalizzante – come, ad esempio, quelli offerti dal sistema ITS Academy – per ambire a una specializzazione o a una qualifica di rango superiore.
Molti di più, però, non escludono di prendersi un anno di pausa per fare una scelta il più possibile consapevole o per fare altre esperienze: lo dice quasi 1 su 6. E altrettanti, invece, guardano allo Stato come datore di lavoro, aspirando a un ingresso nelle Forze Armate o di Polizia o a mettere le mani su uno dei posti messi a concorso per i diplomati dalle pubbliche amministrazioni.
Qualcuno, leggendo meglio tra i numeri, potrebbe trovare qualche spiraglio di fiducia nel fatto che in alcune fasce della società si assiste a una rappresentazione molto diversa da quella generale. L’indagine, infatti, ha voluto analizzare la situazione collegandola anche allo status socio-economico dei ragazzi. E, se tra chi proviene da famiglie mediamente e molto agiate la propensione verso l’estero tocca punte del 70%, all’interno dei ceti medio-bassi la platea si divide esattamente a metà, con 1 giovane su 2 che prevede di restare all’interno dei confini nazionali per studiare e lavorare e altrettanti, quindi ben al di sotto della media, che non escludono di espatriare.
Una apparente fiducia nel “Sistema Italia” che, però, potrebbe essere figlia soprattutto dell’assenza di mezzi o di un profondo disorientamento, e non frutto di una reale convinzione. Tra i meno abbienti, quelli che si posizionano ai livelli inferiori degli indicatori economico-sociali proposti dal questionario, in tanti – il 16%, quasi il doppio del dato generale – immaginano di cercare molto presto un lavoro, anche non qualificato; il 24% vorrebbe provare con i concorsi pubblici o con quelli per le Forze Armate o di Polizia (pure qui il dato medio è circa la metà); il 13% ha messo nel mirino un corso professionalizzante (in media, come detto, è intorno al 10%); mentre solo 1 su 4 sogna la laurea.
E, anche salendo leggermente nella scala sociale, il quadro cambia di poco: tra chi definisce la propria famiglia “abbastanza umile”, l‘università rimane un’opzione di minoranza (pensa di farla solo il 36%), il “posto fisso” al servizio dello Stato – da ottenere attraverso i già citati concorsi pubblici – attira notevolmente (ci pensa il 18%), un corso non universitario dall’approccio pratico sta richiamando l’attenzione del 13%, mentre la ricerca immediata del lavoro è una priorità per il 12%.
Inoltre, per i ceti medio-bassi il futuro è tutt’altro che un orizzonte chiaro. Basti pensare che, in entrambi i casi, oltre 1 su 5 dopo il diploma potrebbe “saltare un turno” per decidere il da farsi dopo circa un anno di stop. E a quel punto, così come per chi punta percorsi che badano al sodo in tempi rapidi, la necessità di andare fuori diminuisce. Sarebbe solo una spesa ulteriore senza che ci sia dietro una reale progettualità. Non proprio una bella notizia.
A questo punto solo delle buone attività di orientamento, che “raccontino” le tante opportunità, spesso nascoste, che ancora offre il nostro Paese, può aiutare a uscire dallo stallo in cui rischiano di restare intrappolati i ragazzi. Perché, tra gli intervistati, complessivamente solo 1 su 4 si sente pienamente orientato. E, se si aggiungono quelli “parzialmente orientati”, si arriva al 60%. Ben 4 su 10, dunque, hanno le idee confuse. Peraltro, la situazione non migliora neanche alle soglie del diploma: tra gli studenti di quinto superiore il disorientamento affligge oltre un terzo del campione (35%) e i “pienamente orientati” restano un quarto del totale (25%).