La vita quotidiana in pandemia è quella che ognuno di noi sta patendo. A parte i rari che riescono ad essere felici in questo contesto, e magari a trarne anche un vantaggio economico, i più ne soffrono. Psicologicamente, socialmente ed economicamente. Sono i più che mandano i figli a scuola, quelli che si devono districare per il rimando e le delazioni dei pagamenti fiscali e non solo che il legislatore (o il padrone) ha concesso, quelli che hanno disagio per le mancanze delle abituali forme di socialità e mobilità. Sperimentando su se stessi la differenza che la pandemia ha introdotto, sono quelli che cercano di capire come, dove e perché. Come già accadeva prima della pandemia, con l’aggiunta di questa variabile che ha svolto e sta svolgendo una doppia funzione: rinchiuderci nei confini delle zone in cui abitualmente viviamo e farci rendere conto che questi confini sono dissolti a vantaggio dei “confini” del Pianeta. Siamo tutti in una sorta di Arca di Noè del 2020, dove non ci sono tutti che fanno fede a Mosé ma solo a se stessi. Fede che collima con responsabilità, anche solo ricordando una questione che tutti dovrebbero già conoscere sulla mascherina: quando la indossiamo non è per proteggere noi stessi ma chi incontriamo; non è come un capo di abbigliamento che indossiamo per ripararci (dalle intemperie o dalle nostre morali o stili di vita) ma per far sì che il nostro comportamento non sia nocivo all’altro (1). Responsabilità, in questo contesto pandemico, dovrebbe essere una parola che fa rima con socialità. La nuova socialità in cui stiamo vivendo e che, di conseguenza, è quella che ci dovrebbe portare i vantaggi e gli utili economici del nostro vivere (2). In questo periodo in cui stiamo esaurendo le scorte che ci hanno consentito di sopravvivere fino ad oggi e siamo tornati grossomodo alle nostre attività economiche, stiamo cominciando a sperimentare la novità. Che, a parte qualche fanatico da film di appendice stile fine del mondo, non può che essere maggiormente più socializzate di quella del periodo prepandemico (3). Oggi più di prima abbiamo bisogno dell’altro e, anche se spesso siamo ristretti in qualche confine in virtù di specifici provvedimenti di autorità territoriali, questo altro è anche quello che abita (ed è ristretto anch’esso) dall’altra parte del Pianeta. Se io miglioro, migliora anche lui. E viceversa. Comunicazione globale, tecnologia globale, informazione globale sono complici ed attori di questa interazione. Ma questo che crediamo di aver capito, è altrettanto compreso dal nostro altro? Sia l’altro il vicino di casa, il dirimpettaio del palazzo, quello che abita in un’altra città o in un altra regione, in un altro Paese, in un altro continente? Sia l’altro che ha più poteri di noi (cittadini e/o sudditi compartecipi di un contratto civico, sociale, economico, urbano, etc.) e che abbiamo delegato (o di cui subiamo la delega) per le disposizioni comuni su socialità ed economia? L’altro che fa le leggi per continuare a farci essere partecipi del contratto pubblico senza doverci umiliare e dissolvere (grazie ad esenzioni e rimandi fiscali, contributi, consigli, nuovi lavori, nuove logistiche, organizzazione del “pubblico”, etc)? Ognuno ha la sua esperienza. Le sue delusioni e le sue opportunità. Le sue critiche e le sue comprensioni. Quanto è diffusa questa consapevolezza? Quanto è praticata? Quanto non è travestita con sotto l’abito dei tradizionali metodi di assalto e di disfacimento dell’altro? Quando consumiamo un prodotto che ci viene presentato come funzionale alle difficoltà e necessità dell’armonia in periodo pandemico, quanto questo prodotto è tale o travestito solo per maggiori profitti (menefreghisti) di chi è stato bravo a cogliere l’attimo? La domanda conclusiva di questa dissertazione è la seguente: chi è che non ha capito? Quello che mi affama fregandosene del fatto che sono affamato, o io che vedo me stesso nell’altro (sia individuo che istituzione)? 1 - ci teniamo a specificare ciò che tutti sanno perché abbiamo percezione che questo meccanismo non sia chiaro – sempre - nella testa di chi porta la mascherina: siamo portati a credere che il gesto di alzare la mascherina quando si incontra qualcuno sia istintivamente più di difesa di se stessi che altro (anche se, ovviamente, difende anche noi il fatto di non potenzialmente infettare un’altra persona). 2 – non siamo fatti per vivere da soli, per quanto qualcuno di noi possa essere più individualista di un altro. 3 – ovviamente ci sono anche filosofie del tipo “mors tua vita mea”… ma qui non ci interessa occuparci di forme estreme dell’essere vivente. Cerchiamo di restare sulla media. Vincenzo Donvito, presidente Aduc