Recentemente il direttore de Il Giornale, Augusto Minzolini ha scritto: “Contemporaneamente, gli azzurri dovrebbero trasformarsi da seguaci di Berlusconi in interpreti del berlusconismo. Sfida non da poco. Che presuppone un’unità vera del partito. E ancora l’attitudine a dare un senso e un futuro al berlusconismo senza Berlusconi.
È già successo in passato con altri statisti che hanno caratterizzato la fase storica di un Paese. Forse il paragone più vicino è quello con il generale De Gaulle: morì De Gaulle, ma non il gollismo. Tutt’altro. La sua visione e il suo elettorato furono rappresentati poi per decenni da personaggi come Pompidou, Chaban-Delmas, Chirac e quell’antipatico di Sarkozy. Il gollismo ha avuto un peso fondamentale nella storia della Francia. Un partito nato da una personalità eccezionale, moderato, con una forte impronta nazionalista e con gli occhi puntati a destra. Insomma, ci sono tante affinità con Forza Italia. Certo il progetto è ambizioso, perché il vuoto lasciato dal Cavaliere è enorme. Ma nella vita nulla è semplice. Basta crederci. È stata la prima lezione di Berlusconi”.
E tuttavia uno che ha cercato di studiare il Berlusconismo è stato il sociologo Giovanni Orsina, con il suo “Il berlusconismo nella storia d’Italia”, pubblicato da Marsilio editori nel 2013. Certamente a questo studio dovranno fare riferimento non solo i dirigenti di Forza Italia, ma tutto il Centrodestra, dovranno fare riferimento soprattutto quelli che stanno lavorando per fare un grande contenitore conservatore della politica italiana.
E’ un libro che non parla di Silvio Berlusconi, se ha governato bene o male, Orsina, invece affronta osservazioni peraltro trascurate, perché Berlusconi, il berlusconismo, ha avuto successo, come è stato accolto dal paese e perchè non ha funzionato. Il testo analizza il progetto ideologico e politico più o meno coerente, il nucleo fondante e l’elettorato di riferimento. Orsina si sforza di capire cosa sia successo in Italia in quei vent’anni a partire dal 1994 cercando di mettersi dalla parte di chi ha votato Belusconi. Certamente rifiutando la leggenda che si sia trattato di un elettorato con scarsa intelligenza, scarsa moralità. Certo erano diversi, ma non necessariamente inferiori. Già nell’introduzione l’autore si muove per sostenere che il berlusconismo non abbia avuto uno scarso “spessore” politico, infatti sono in tanti gli studiosi ad aver sottovalutato “i contenuti del berlusconismo, per concentrarsi sui suoi strumenti e sulle sue forme”. Hanno soprattutto enfatizzato le risorse economiche che il Cavaliere aveva a sua disposizione nel momento di “scendere in campo”. Chi ha studiato il fenomeno Berlusconi si è concentrato “sul modo nel quale Berlusconi ha costruito e poi comunicato il proprio messaggio: l’uso intenso e professionale dei più moderni strumenti del marketing politico; il ricorso massiccio ai sondaggi allo scopo di valutare lo stato dell’opinione pubblica; la cura maniacale dell’immagine; il tono costantemente ottimistico e rassicurante; il ruolo centrale attribuito al leader e l’uso propagandistico delle sue caratteristiche personali – il successo nell’attività imprenditoriale, la ricchezza, l’estraneità ai percorsi del professionismo politico -; l’abilità nel raccontare storie;la capacità di costruire con gli italiani un legame fatto di identità profonda, condivisione di modi di essere e di pensare; desiderio di imitazione”. Ecco di tutte queste cose, precisa Orsina, si parlerà poco, il suo libro si occuperà d’altro, non perchè non siano stati importanti, anzi, forse senza di essi, il berlusconismo non sarebbe esistito.
In sei capitoli il testo inserisce la fase del berlusconismo all’interno della Storia italiana almeno quella degli ultimi centocinquant’anni. Nel I capitolo Orsina prende in esame “La questione italiana”. Si parte da lontano il 1861 per arrivare al 1992. Naturalmente Orsina se ne guarda bene da considerare i tre tipi di governi allo stesso modo, ci sono le differenze storiche, etiche e politiche, anche se il filo rosso che li lega è sempre lo stesso una separazione fra “paese legale” e “paese reale”. La caratteristica sia del regime cosiddetto Liberale, che quello dittatoriale fascista e poi quello democristiano era sempre la stessa: una profonda sfiducia reciproca, fra le élite
politiche e istituzioni pubbliche da una parte, il “popolo” dall’altra. Proprio questa condizione fra élite e “popolo”, per Orsina “è il miglior modo per comprendere, se non in assoluto tutta la storia d’Italia, per lo meno quella parte della vicenda della Penisola della quale ci stiamo occupando in questo libro – il berlusconismo”.
La coppia concettuale più importante che ha segnato la storia dell’Italia unita è quella della Modernità/arretratezza. La Modernità europea da un lato e il ritardo “mediterraneo” dell’Italia dall’altro. Fin dall’epoca del Risorgimento c’era un desiderio che l’Italia si mettesse alla pari con le grandi nazioni potenti e ricche dell’Europa settentrionale e bisognava farlo in fretta. Pertanto c’era un tema sempre presente ed era quello della forzatura. In pratica, “l’oggetto da forzare, ossia da estrarre volente o nolente, e velocemente, dalla sua arretratezza morale e materiale, era il paese”. Il Paese si cambia forzatamente attraverso lo Stato, un partito, una rivoluzione. Chi doveva guidare la forzatura era una elite modernizzante che in fretta e con metodi spicci doveva mettere in marcia il paese. Orsina introduce una tesi che poi comparirà spesso nel libro, ed è quella che si tratta di una operazione di stampo giacobino, chiamata “ortopedica” e “pedagogica”. Si tratta di quegli sforzi continui e costanti che la classe dirigenti del Paese Italia cercano “di costruire, ricostruire, difendere e, riparare un apparato politico ortopedico, ossia che raddrizzasse, e pedagogico, ossia che rieducasse il paese nei tempi più brevi possibili, così da renderlo infine capace di una qualche forma di modernità”. Per Orsina questa è una chiave di lettura che certamente fa capire molte cose sulla storia d’Italia. Che potrebbe essere analizzato anche secondo la dicotomia fra politica della fede e politica dello scetticismo, teorizzata dal filosofo inglese Michael Oakeshott, tuttavia per il filosofo, l’età contemporanea è stata segnata dal prevalere la fede sullo scetticismo. Insomma negli ultimi due secoli, non solo in Italia, ma anche in altri Paesi, con le dovute differenza, la politica ha cercato sempre di svolgere una fondamentale funzione ortopedica e pedagogica, che poi fu inaugurata dai giacobini in Francia.
Interessante la riflessione maturata da Orsina per quanto riguarda il nostro Paese. Il rapporto complesso fra politica e società, ci si è persuasi che il nord e il sud avevano due stadi diversi di incivilimento. Pertanto la Modernità doveva essere importata dall’esterno all’Italia, ma nello stesso tempo il modello Settentrionale da importare nel Mezzogiorno. Orsina si sofferma sulle varie arretratezze del Paese, partendo dalla letteratura “Cristo si è fermato a Eboli”. Non mi soffermo più di tanto, l’autore analizza i paradossi del giacobinismo, che ha segnato la storia italiana, che poi non è stato in grado di risolvere il problema dell’arretratezza ideologica e culturale del paese.
Il 2° capitolo (“La Repubblica antifascista dei partiti”) In questo periodo ritornano i partiti e ritorna la solita questione di come deve essere rieducato e raddrizzato il popolo italiano, pertanto chi voleva trasformare il paese non restava che affidarsi ai partiti. E in particolare si erano proposti facendosi garanti di rieducare e raddrizzare il popolo, sia il Partito comunista, il socialista e il repubblicano. Per la verità anche all’interno della Democrazia cristiana ci fu una corrente come quella di Dossetti e i dossettiani che erano convinti che il popolo avesse bisogno di una rivoluzione ortopedica e pedagogica. In questo contesto Orsina fa riferimento al movimento antipartitico di destra dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, che rifiutava sia l’ideologismo di sinistra che di destra, quell’ansia di irreggimentazione e il giacobinismo presenti in entrambi i fronti. Anche questo movimento andrebbe studiato. Trascuro la parte del libro dove si affronta la Guerra fredda, gli anni Sessanta. Fino ad arrivare all’arcipartito, il Partito comunista, il partito diverso, “Il Moderno Principe”, il Pci appariva portatore di una diversità positiva: tensione etica, rispetto delle regole, senso della collettività, subordinazione degli interessi particolaristici a quelli collettivi, capacità di proiettarsi sul medio e lungo periodo, rapporto solido e organico fra élite politica e ‘popolo’”. Il Pci è il più partito fra i partiti: quello che può disporre del progetto ortopedico e pedagogico più radicale; il più antifascista; quello che con maggiore chiarezza aveva identificato e circoscritto un’elite coesa, determinata, virtuosa; il modello per tutte le altre forze politiche, che si sono trovate a doverlo imitare a pena di esserne sconfitte”. Qui per la verità Orsina elenca una serie di difetti dell’”arcipartito” comunista: il machiavellismo, il settarismo, l’autoreferenzialità; la convinzione che tutto dovesse essere subordinato all’interesse partigiano – comprese le istituzioni, le regole e le verità. Ma la vera malattia di cui è affetto “il partito nuovo” è il pedagogismo esasperato, l’ipocrisia prelatizia, l’identificazione del partito-padre […]annullamento di ogni individualità, obbedienza gerarchica, con abiure, anatemi, pentimenti, scomuniche e confessioni in pubblico. Finalmente siamo partiti da lontano per arrivare al berlusconismo.
Prima da arrivare al tema, Orsina, si pone il quesito fondamentale se sia possibile “identificare nella storia dell’Italia unita una robusta linea di continuità rappresentata da un approccio ortopedico e pedagogico al problema del rapporto fra paese legale e paese reale. Questo approccio – scrive Orsina – si fonda sulla convinzione che la Penisola sia materialmente e moralmente arretrata ; che debba essere modernizzata – ossia raddrizzata e rieducata – più in fretta possibile; che non possa essere modernizzata altro che con strumenti in senso lato politici (Stato, pubblica amministrazione, mobilitazione partitica, un atto rivoluzionario); e che di conseguenza sia assolutamente prioritario identificare l’élite politica ‘giusta’, provvederla degli utensili adatti, tenerla il più possibile al riparo dai condizionamenti della società”.
Certo non tutta la storia può essere ricondotta a questa linea di continuità, tuttavia buona parte dei centocinquant’anni unitari del Paese possono essere visti così come sono stati descritti da Orsina. Praticamente per essere più chiari, “I vari progetti di rieducazione e raddrizzamento dell’Italia per via politica – con le dovute differenze, anche notevoli, fra l’uno e l’altro – prevedevano in astratto che un paese legale virtuoso e lungimirante elevasse al proprio livello di civiltà un paese reale particolaristico e arretrato. Una volta completata quest’opera di innalzamento lo iato fra paese legare e paese reale si sarebbe chiuso, e l’Italia sarebbe infine entrata nel paradiso della normalità occidentale”. Tuttavia però le cose sono andate in maniera diversa, per molti motivi: “l’Italia si è rivelata molto più coriacea di quanto non si credesse; le élite politiche sono state assai di rado solide e coese; lo Stato era troppo debole e inefficiente per sostenere un progetto così ambizioso”.
Inoltre c’è da fare un’altra osservazione in questi progetti di raddrizzamento e rieducazione del paese, il non raggiungere gli scopi, spesso hanno finito per condurre a risultati esattamente opposti a quelli che si volevano perseguire. In buona sostanza per Orsina, “hanno confermato negli italiani la convinzione che lo Stato fosse soprattutto un nemico dal quale difendersi; hanno reso ragionevole la scelta di badare in primo luogo agli interessi propri e del proprio clan […]”.
Col 3° capitolo siamo al tema: il berlusconismo che affonda le sue radici dove si intreccia la dicotomia ortopedica e pedagogica portata avanti dalle cosiddette forze progressiste e giacobine che non sono riuscite a risolvere la questione italiana. Il berlusconismo è nato da questo fallimento. Se i progressisti davano un giudizio negativo del Paese reale, il Cavaliere ha invece postulato il carattere assolutamente positivo. “Nel fare questo, e nel modo in cui lo ha fatto, Berlusconi ha rappresentato un unicum in centocinquant’anni di vicenda unitaria, e la sua ‘discesa in campo’ ha introdotto una cesura storica profonda: prima di lui, dal Risorgimento a oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita, sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono”. Ricordiamo tutti i messaggi positivi e rassicuranti che Berlusconi ha sempre lanciato all’Italia e sull’Italia, enfatizzando quello che andava bene e minimizzando ciò che andava male. Secondo Orsina il Cavaliere per la sua politica ha trovato “un solido punto d’appoggio nel mito antipolitico della società civile che si è venuto facendo sempre più robusto e trasversale in Italia a partire dagli anni ottanta”. Nel passato ci avevano provato altri, la cavalcata politica del Cavaliere ha avuto successo per tre ragioni: perché è stato più coerente nel collegare il mito della società civile a un programma di riduzione della presenza dello Stato. Perché non ha avuto paura di collocarsi a destra, dove le praterie elettorali dell’antipolitica erano più vaste e ricche. Infine perché nel proporsi come rappresentante della società civile era assai più credibile di Craxi, Pannella, Segni o Occhetto, tutti professionisti della politica.
A questo punto Orsina analizza la politica del berlusconismo, iniziando dalla lapidaria frase molto ad effetto: “l’Italia è il Paese che amo”. Tutti gli interventi pubblici di Berlusconi sono pieni di articolate apologie del Paese reale a cominciare dal suo primo discorso di febbraio 1994. Berlusconi era stato definito dai giornalisti di sinistra un arci-italiano, pensando di offenderlo, invece essere definito così per lui era un vanto. Pertanto da “Arci-italiano” si è scontrato con il Partito “Anti-italiano”, che seguiva una ideologia anti-italiana, diffidente del popolo italiano. “I cittadini italiani sono stati costantemente trattati come un popolo bue al quale impedire di ripetere l’errore di innamorarsi di un tiranno”. Tutto è stato delegato ai partiti e ai loro apparati per contenere e controllare la società civile per evitare ricadute.
A proposito di partito anti-italiano ne ha parlato recentemente il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano intervistato dal settimanale Tempi (“Il governo Meloni rompe la logica del partito anti-italiano, 17.6.23, Tempi) “Questa cosa non piace, ha spiegato Mantovano: «C’è un “partito” anti-italiano, che non si presenta alle elezioni, un raggruppamento trasversale con una precisa visione della storia, che pensa che l’Italia sia un paese sbagliato», un “partito” che si riconosce nel “Manifesto di Ventotene”, un documento troppo citato e troppo poco letto, in cui gli autori, Spinelli e Rossi, dicono chiaramente che il popolo non sa con precisione cosa volere e cosa fare: «Il popolo non è in grado di operare le sue scelte, se lo fa è pericoloso e va riorientato, persino il colore dei fiori da piantare nel giardino qui fuori deve essere deciso a Bruxelles – è questa la logica del Pnrr: se non fai come dico io ti tolgo i fondi”.
Berlusconi scommette sugli italiani e ribalta sia la diagnosi che la terapia: “se gli italiani non si fidano della classe politica e delle istituzioni pubbliche la colpa non va attribuita a quelli ma a queste, le soluzioni non devono più essere cercate reale al paese legale, ma viceversa nell’adeguamento del paese legale al paese reale”. Un’operazione che avverrà in tre livelli distinti ma collegati l’uno all’altro: le istituzioni e le regole, il modo di fare politica, la selezione e formazione dell’élite pubblica. E poi lo Stato soprattutto, che deve essere reso più leggero, di ridurne il campo di intervento, di fargli fare molte meno cose fatte molto meglio, da altri. Un cambio di passo rispetto a tutto lo statalismo del Novecento, consolidatosi con Giolitti, Mussolini e con la stessa DC, un sistema che ingabbiava e ci affliggeva. Per Berlusconi occorreva passare da un governo arcigno, estraneo alla vita concreta della gente a uno “Stato amico […] al servizio dei cittadini, che non spaventi gli italiani ma al contrario garantisca loro ‘il diritto di non avere paura’”. Lo Stato deve dare fiducia agli italiani, allo stesso modo gli italiani rispetteranno lo Stato e le sue leggi. Non è parso che il Cavaliere abbia fatto apologia dell’illegalità. Si pensi a tagliare le tasse e semplificare e mitigare le leggi, invece di raddrizzare il paese.
Devo avviare alle conclusioni, per evitare di rendere lo studio illeggibile. Berlusconi spesso nei suoi discorsi proclamava di avere in mente un’Italia diversa rispetto a loro che sanno soltanto proibire e odiare (e spesso si riferiva ai comunisti) a quell’asse che si era contrapposto al popolo italiano che il 18 aprile 1948 aveva scelto di stare nell’Occidente con la democrazia, col voto plebiscitario alla Democrazia cristiana. Il Cavaliere “è riuscito a riportare l’orologio della storia agli anni cinquanta: ha ripescato quella destra ideologicamente stratificata – in parte conservatrice, in parte liberale, in parte impolitica e benpensante, in parte qualunquista, in parte tutte queste cose insieme in percentuali variabili […]. Un altro fattore importante Berlusconi ha sdoganato il neofascismo del Movimento sociale, dopo tanti anni di emarginazione. Inoltre ha riavvicinato alla politica fasce sociali e settori dell’opinione pubblica che erano tradizionalmente distanti.
”Berlusconi sosteneva di avere “in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare”. Diventa il condottiero che porta alla riscossa il popolo italiano che era stato colonizzato dalla politica, ora finalmente questo popolo può contrattaccare, essere liberato dall’arci-partito (il partito comunista). L’avversione per i partiti nati dal Pci era una conseguenza naturale scrive Orsina. Questi partiti erano gli eredi dell’arci-partito che aveva lavorato per raddrizzare ortopedicamente e pedagogicamente il popolo italiano. In un discorso del 2000, Berlusconi aveva detto: “Il loro credo è il centralismo, il dirigismo, lo statalismo, ovvero il contrario del nostro, che è la sussidiarietà […] Da questo loro credo deriva l’idea dello Stato che fa tutto, che controlla tutto, che vuole sapere tutto, che regolamenta tutto, lo Stato professore, lo Stato medico, lo Stato maestro, insomma uno Stato che è esattamente l’opposto di quello che pensiamo noi: uno Stato che si occupa soltanto, ma bene, dei servizi essenziali, e che lascia libertà totale per tutto il resto ai suoi cittadini”.
Insomma per Berlusconi la fine del comunismo non ha comportato la fine dei comunisti come gruppo di potere robusto e aggressivo, settario e autoreferenziale. L’anticomunismo di Berlusconi è ritornato di continuo, negando in loro alcunché di positivo nella loro presunta diversità. “Noi non riconosciamo in voi nessuna superiorità morale. Non siete affatto la parte diversa, la parte sana, la parte migliore del Paese, come ancora cercate di far credere”. Il superclan dei comunisti si basa sulla menzogna, ha detto in più occasioni.
Descrivere il berlusconismo non è una operazione semplice, può essere anche rischiosa. Orsina sostiene che l’ideologia berlusconiana sia stata una emulsione di populismo e liberalismo, per lo meno di un certo tipo di liberalismo. Più avanti Orsina lo definisce come un polpo con tre tentacoli: l’ipopolitica, lo “Stato amico” (Stato minimo),l’identificazione di una nuova élite virtuosa. Insieme a questo c’è la consueta apologia berlusconiana dell’italianità che si può ricondurre al patriottismo. Enfasi su un’identità collettiva che si fonda su una storia e una tradizione comuni, con riferimento ai valori del cattolicesimo. il 4° capitolo Orsina guarda il berlusconismo dal “basso”, cioè dal punto di vista dell’elettore che lo ha votato. Chi sono? Quali le ragioni che li hanno ispirati a votarlo? Domande complesse. Cercheremo di rispondere in qualche altra occasione.
DOMENICO BONVEGNA
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