È possibile trarre un giudizio sulla politica di oggi dall’analisi del suo linguaggio? Il grado di fiducia dei cittadini nei confronti dell’azione della politica, della sua capacità di rappresentare fedelmente e degnamente l’elettorato e di incidere sulle dinamiche sociali ed economiche è molto basso.
Secondo il Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes si arresta il trend positivo della fiducia nei confronti delle Istituzioni: calano, infatti, i consensi nei confronti del Governo e del Parlamento, mentre crescono quelli relativi alla Magistratura. Tuttavia, nessuno dei tre poteri dello Stato riesce a conquistare una fiducia da parte dei cittadini che superi il 50%. Ebbene, quali sono le responsabilità delle parole utilizzate dalla classe dirigente, dai parlamentari, dagli amministratori pubblici? Va subito precisato che ad una eventuale responsabilità dei politici se ne affianca una, analoga e non meno importante, di chi la politica la racconta per mestiere. Ci si riferisce ai giornalisti e ai mezzi di informazione che, quotidianamente, della politica e delle sue vicende forniscono una versione attraverso le parole, oltre che con immagini e video. Eppure, il grado di fiducia che la stampa e i mezzi di informazione registrano in Italia non è lusinghiero: solo un terzo circa degli adulti italiani (34%) considera i mezzi di informazione molto importanti per la società, mentre circa tre soggetti su dieci (29%) affermano di avere fiducia nei mezzi di informazione, come rilevato da un sondaggio del Pew Research Center sui mezzi di informazione e sulla politica in otto paesi dell’Europa occidentale (tra cui l’Italia).
Ma veniamo alle accuse che oggi vengono rivolte alla politica: una delle più condivise riguarda l’odio e l’aggressività delle sue parole, in un clima di delegittimazione e di demonizzazione dell’avversario politico, concepito come un nemico, un pericolo pubblico, una minaccia sociale. In questo contesto, che alimenta paure e odio, un ruolo decisivo – sia in tema di semplificazione, sia in quello di brevità e di aggressività – viene attribuito ai social media, piattaforme digitali utilizzate dai politici, ma anche dagli elettori, per fornire informazioni e soprattutto lanciare anatemi e accuse, paventare complotti, pronunciare insulti.
Secondo alcuni esperti, il linguaggio politico odierno risente di diversi fattori, non ultimo quello del progressivo spostamento da un voto di appartenenza a un voto libero e di opinione. E, questa, sarebbe una conseguenza della crisi delle ideologie dei grandi partiti di massa. Ecco il motivo per il quale si sarebbe passati da una lingua colta ed elitaria, a una più semplice e popolare. Molto interessante, sul tema, il pamphlet di Ettore Maria Colombo dal titolo Piove governo ladro (edito da All Around), un dizionario divertente e ragionato sulle parole e i modi di dire della politica, tra prima, seconda e terza Repubblica, dal “tanto qui è tutto un magna magna” all’invito ad abbassare i toni, dal “vaffa” grillino, all’“aiutiamoli a casa loro”, dall’“inciucio” al benaltrismo, dai “nuovi barbari” al “buonismo”, dal “bunga-bunga” alla casta, dal “celodurismo” al cerchio magico, dal contratto con gli italiani, alle fake news, dal “ce lo chiede l’Europa”, al no Tav, dai no global e no Tap all’“onestà onestà onestà”, dall’“uno vale uno” ai pieni poteri, dal radical chic alla rottamazione, dalle scatole di tonno al teatrino della politica, dalle convergenze parallele all’antipolitica, in una progressione improntata all’odio crescente e alla rabbia accecante.
Occorre, comunque, considerare – e questa non vuole essere una attenuante – che sono mutate anche le occasioni, i formati comunicativi e gli strumenti di dialogo oltre che i contesti: dai comizi e dai talk show, ai video postati su Twitter, Facebook, Instagram. Trasformazioni o, secondo molti, vere e proprie involuzioni che riguardano sia il lessico – parolacce, termini dialettali, espressioni volgari – che la sintassi, con periodi brevi, semplici, schematici, veloci. Sì, perché la velocità e la brevità dettano oggi legge nella comunicazione politica. I tempi sono quelli televisivi e la lunghezza dei testi deve essere il più stringente possibile.
Il nemico di questa comunicazione è la complessità, con tutti i rischi che ne derivano sul fronte della banalizzazione di questioni complesse e sulla demagogia per quello che riguarda la soluzione di vicende annose e oggettivamente difficili. E pensare che lo scopo della politica dovrebbe essere anche quello di rendere accessibili contenuti complessi, in modo da permettere a tutti di comprenderli, condividerli e farsi un’opinione, in funzione di un voto da esprimere nel modo più consapevole e libero possibile.
Qualcuno dirà, non senza cognizione di causa, che queste dinamiche improntate alla velocità e alla brevità sono un riflesso della crisi della democrazia e della sfiducia nei suoi meccanismi. È un pensiero condivisibile, soprattutto se si considera che oggi il linguaggio della politica è pieno non solo di slogan e di diktat – e sempre meno di allusioni e di ironie – ma anche di metafore guerresche e, del resto, non era lo stesso Carl von Clausewitz a sostenere che la guerra altro non è che il prolungamento della politica? I tempi e i modi del confronto vengono percepiti come una noiosa perdita di tempo. Tutto viene ricondotto allo schema amico/nemico della guerra di tutti contro tutti, alla ricerca di un consenso sempre più umorale e, quindi, mobile, fluttuante, emotivo.
L’idea di governo che prevale è quella della occupazione sistematica del potere che non fa prigionieri. La mediazione e la predisposizione al dialogo vengono considerate démodé. La mentalità populistica e demagogica, del resto, si sposa benissimo con queste modalità comunicative tranchant, brevi, evocative, che non ammettono replica. Viene così proposto, e appare l’unico oggi ammesso, un modo di pensare che si fonda sulla dicotomia in una deriva dispotica e dirigistica: chi vince e chi perde; maggioranza e opposizione; vero e falso; pubblico e privato; noi e loro; amico-nemico. È il clima di campagna elettorale permanente che si respira, dovuto alla estrema mobilità del consenso, rilevata attraverso sondaggi settimanali o giornalieri, che condizionano, e determinano, le scelte stesse della politica, i rinvii delle decisioni, i contenuti dell’agenda politica, i dossier più importanti.
È il degrado del linguaggio politico a cui assistiamo inermi, con il suo impoverimento che oscilla tra la derisione, l’insulto, l’aggressione con brevi frasi ad effetto e con formule mediaticamente attraenti e pronte ad essere mutuate. Frasi ed espressioni del politico di turno che vengono smentite dall’interessato solo dopo pochi minuti dall’averle pronunciate e, forse, aveva proprio ragione Charles De Gaulle quando affermava che «poiché un politico non crede mai in quello che dice, quando viene preso alla lettera rimane sempre molto sorpreso».
ALFONSO LO SARDO – leurispes.it