Inflazione e mercati finanziari: quanto dobbiamo preoccuparci?

Secondo la celebre definizione di Thomas Carlyle, l’economia è una scienza triste (dismal science). Carlyle si riferiva principalmente alla forte influenza del pensiero cinico e pessimista di Malthus che – soprattutto nella sua epoca – era particolarmente rilevante nella disciplina.

L’espressione è stata successivamente ripresa in riferimento alle più svariate sventure di questa disciplina che si può definire scienza solo in senso molto, molto, estensivo e che per troppo tempo ha tentato di scimmiottare la rigorosità delle cosiddette “scienze dure”. In economia non si possono fare esperimenti ripetibili ed è chiaro che l’applicazione delle teorie economiche ha fortissime connessioni con la politica e la necessità di trovare il consenso dei cittadini. Per di più, l’economia (di cui la finanza è una sorta di quintessenza) è il regno delle “profezie auto-avveranti”. Una emerita scempiaggine può diventare vera se viene creduta da un sufficiente numero di persone che si comportano come se fosse tale. A complicare le cose vi è il fatto che la macroeconomia è particolarmente controintuitiva. Comportamenti palesemente virtuosi a livello del singolo attore economico (come ad esempio non spendere più di quanto si incassi o risparmiare per i momenti difficili) diventano gravi errori a livello di sistema economico. Il concetto di debito, ad esempio, è profondamente diverso se applicato a livello di singolo attore economico (persona, famiglia, impresa) o di società nel suo complesso (debito pubblico). I meccanismi di creazione e funzionamento del denaro sono praticamente ignoti perfino ad una fetta molto ampia di persone che lavorano in finanza, non parliamo poi del cittadino medio il quale usa quotidianamente il denaro in modo totalmente inconsapevole. Da tutto questo ne deriva che praticamente non esiste argomento economico rilevante per il quale non vi siano autorevoli opinioni opposte, sia sulla diagnosi che sulle ricette da applicare ai vari problemi economici della società.

 

Il caso del tema del debito pubblico durante la crisi dell’euro è emblematico. Purtroppo la memoria collettiva, specialmente in Italia, è particolarmente flebile. Poco dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (causata essenzialmente dal debito privato USA che ha gonfiato la bolla immobiliare) in Europa per molti anni è stata creduta la follia in base alla quale i debiti di alcuni stati europei potessero non essere sostenibili. Una nazione, la Grecia, ha anche pagato un prezzo salatissimo all’altare di questa follia ideologica nel momento in cui è stata strumentalizzata dalla politica.

Nel nostro piccolissimo, sul sito Aduc Investire Informati, scrivevamo decine di articoli spiegando perché il debito pubblico fosse pienamente sostenibile (1), ma tutta la narrativa dei media andava nella direzione opposta. Nel momento in cui la pandemia ha spazzato via le assurde tesi economiche che propugnavano la riduzione del debito attraverso la riduzione delle spese (le quali vanno rese più efficienti e produttive, non ridotte) si è visto che l’Italia è cresciuta a ritmi del 6%; ciò ha permesso di ridurre il famoso rapporto Debito/PIL pur aumentando il debito complessivo. Questo nonostante il fatto che ancora ad inizio 2021 si pubblicavano articoli allarmati sul grande debito pubblico italiano che continuava a crescere in rapporto al PIL. Adesso, non solo in Italia, il rischio (una quasi certezza, in verità) è che si faccia un abuso del debito e che, nel momento in cui i tassi d’interesse si alzeranno, il servizio per il debito (il denaro che va a ripagare gli interessi ed i rimborsi) diventi un vero problema se le spese sostenute non andranno a rendere sufficientemente più produttivo l’intero sistema. Ma questo è un tema diverso da quello dell’inflazione di cui vogliamo parlare in questo articolo.

Cosa genera l’inflazione in genere?

Così come per il problema del debito, anche per l’inflazione c’è una grande confusione. Per anni si è scritto che il fatto che le banche centrali “stampassero” denaro avrebbe provocato prima o poi inflazione nei beni reali.

Questo è semplicemente falso. Solo chi non conosce i meccanismi tecnici del cosiddetto quantitative easing (chiamato dai giornali “stampa di denaro”) può scrivere tali sciocchezze e purtroppo sono in molti. La dinamica dell’inflazione è influenzata da diversi fattori, ne elenchiamo i principali:

  1. Produttività. Nel breve termine (trimestri) l’incremento della capacità produttiva (produrre più beni e servizi a parità di lavoro) può variare relativamente poco, nello spazio di anni è fortemente influenzata dalla tecnologia ed è la variabile chiave. A parità di altri fattori, maggiore è la capacità produttiva, minore sarà l’inflazione.
  2. La propensione al consumo. Tendenzialmente, più invecchia la popolazione e minore è la propensione al consumo. A parità di altri fattori, ovviamente, minore è la propensione al consumo e minore sarà l’inflazione.
  3. Quantità di denaro disponibile nell’economia reale. Nel breve termine, la disponibilità di denaro è fortemente influenzata dalla spesa pubblica e dalla capacità degli operatori di fare debito (per le regole attuali, il debito è il modo principale con il quale si crea denaro). A parità di altri fattori, maggiore denaro è in circolazione nell’economia reale, maggiore sarà l’inflazione.
  4. Dinamica dei salari. La crescita dei salari è il principale fattore che può innescare una spirale inflazionistica. Se c’è un eccesso di denaro in circolazione per un periodo relativamente breve di tempo, i prezzi si adeguano per ricreare l’equilibrio fra i beni e servizi che un’economia è in grado di produrre e la quantità di denaro che circola, ma dopo poco i prezzi tornano stabili. Se invece i salari crescono di più della capacità produttiva, questo innesca una spirale inflazionistica che può durare anche per molti anni.
  5. Anomalie nelle disponibilità e/o nei prezzi delle materie prime. Le normali variazioni dei prezzi delle materie prime sono facilmente assorbite dalle dinamiche complessive dell’economia, ma se queste sono eccessive e riguardano beni – come il petrolio – direttamente o indirettamente coinvolti praticamente nella produzione di quasi tutti i beni fisici, allora si può generare uno shock economico come quello che avvenne negli anni ‘70 che di fatto determinò la fine delle dominio culturale del pensiero  keynesiano. Cosa sta generando l’inflazione attuale?

Non v’è dubbio che da un paio di trimestri stiamo vivendo, specialmente negli USA ed in misura leggermente inferiore in Europa, un accentuarsi dell’inflazione. Nel periodo precedente, le banche centrali temevano il problema opposto, ovvero la diminuzione dei prezzi o l’eccessivo immobilismo. Un moderato aumento dei prezzi (sotto, ma nei pressi, del 2%) agevola l’economia complessiva. Una diminuzione è un problema molto grande e ben peggiore di un’inflazione sostenuta ma comunque non fuori controllo. Per molto tempo le banche centrali, da sole, non sono state in grado di stimolare la dinamica dei prezzi, essenzialmente perché i primi due fattori elencati nel paragrafo precedente, che sono forze di lungo termine, nelle economie sviluppate sono potentemente antinflazionistiche. La popolazione invecchia comprimendo la propensione al consumo e la tecnologia sta donando all’umanità una capacità produttiva senza precedenti in continua accelerazione. L’attuale inflazione è dovuta essenzialmente alla quantità, molto significativa, di aiuti pubblici che sono stati concessi (fattore n. 3 del paragrafo precedente) ed a problemi nella catena di approvvigionamento dovuti in parte alla crisi sanitaria. Al momento non vi sono ancora segni di una crescita dei salari di tipo inflazionistico (fattore n. 4) ma il prezzo del petrolio è a livelli potenzialmente preoccupanti (fattore n. 5). Dobbiamo attenderci un’inflazione fuori controllo?

Al momento niente lascia pensare alla possibilità che nei paesi occidentali si presenti una dinamica inflattiva fuori controllo. Parliamo, per capirci, di un’inflazione a due cifre per un periodo prolungato. Nel 1973 in Italia l’inflazione superò il 10% e rimase sopra il 10% fino al 1984 toccando punte del 20%. Le condizioni oggi sono completamente diverse da allora ed è francamente irragionevole attendersi una cosa del genere. Il principale fattore deflazionistico che l’umanità sta preparando è quello relativo alla produzione dell’energia. Per quanto, nel breve termine, il prezzo del petrolio possa spaventare, nel lungo termine la sua veste di regina delle materie prime ha gli anni contati. Lo si diceva, con troppo anticipo, fin dagli anni ‘70, in particolare con i lavori del Club di Roma sui limiti fisici allo sviluppo economico. Parte di quelle tesi si sono rivelate discutibili (soprattutto nella metodologia), ma oggi la fine dell’era del petrolio, oltre ad essere una indiscutibile necessità per ragioni ecologiche è prima di tutto una questione economica. Grazie alla curva decrescente dei costi delle batterie elettriche, il problema della disponibilità alternata dell’energia da fonti rinnovabili verrà risolto a costi sempre più bassi. Il costo dei pannelli solari ha una simile curva discendente. Nel giro di pochi lustri il costo di produzione dell’energia da fonti rinnovabili sarà molto più competitivo di quello delle centrali termiche. Chi volesse approfondire il tema può trovare informazioni molto dettagliate (purtroppo solo in inglese) in questo report: “Rethinking Energy 2020-2030 – 100% Solar, Wind, and Batteries is Just the Beginning”.

Questo solo aspetto è sufficiente ad escludere un periodo di inflazione fuori controllo come quello che abbiamo avuto negli anni ‘70, innescato dalla questione del petrolio e poi prolungato essenzialmente per l’incapacità del sistema politico di gestire la dinamica salariale. Potrebbe presentarsi una dinamica inflattiva nell’intorno del 5% all’anno per un numero abbastanza prolungato di tempo? Questa è un’ipotesi che ha scarse possibilità di realizzarsi, ma non praticamente nulle come la precedente. Essenzialmente dipenderà dalla volontà delle banche centrali e dalla capacità dei governi di non cedere alla spirale dei salari. Contrariamente a quello che si legge in giro sui media, le banche centrali ed i governi oggi hanno moltissime leve per controllare l’inflazione nel medio/lungo termine. Nello spazio di qualche trimestre, l’inflazione può fare qualche “fiammata” come ha fatto con l’ultimo dato negli USA e la banca centrale ed i governi possono aver bisogno di tempo per dosare le cure affinché non siano eccessive, penalizzando l’economia e l’occupazione, ma dopo poco tempo la fine degli aiuti di stato e l’aumento dei tassi d’interesse riporteranno i prezzi a crescere a ritmi più contenuti. L’impatto sui portafogli finanziari Se, da un punto di vista economico in generale, il problema è molto minore di quanto sia riportato sui giornali, dal punto di vista finanziario il problema è rilevante perché andiamo incontro ad anni nei quali i portafogli prudenti faranno una fatica enorme a battere l’inflazione ed al tempo stesso le componenti volatili del portafoglio, nel breve termine, potrebbero dare più preoccupazioni che soddisfazioni, proprio per l’aumento di tassi d’interesse e l’interruzione delle politiche monetarie espansive da parte della banche centrali. Purtroppo non ci sono soluzioni “magiche”. Andiamo incontro ad anni finanziariamente difficili nei quali sarà particolarmente importante essere pienamente consapevoli delle difficoltà del periodo che sarà comunque transitorio. Fondamentale non farsi prendere dalla paura o dall’avidità, alla ricerca di soluzioni semplici al problema della protezione dei risparmi dall’erosione dell’inflazione. Non ci sono soluzioni semplici. E’ ben possibile che nel corso di questo decennio possa esserci un anno (o forse un paio) nel quale la partita con l’inflazione venga persa. L’importante è che in quel periodo il portafoglio sia nelle condizioni di potersi rifare, quando le condizioni saranno opposte, poiché i mercati finanziari attraversano sempre dei cicli. Quando parliamo di investimenti finanziari, l’errore di gran lunga più comune è quello di investire senza un piano, una strategia. C’è una sola cosa peggiore che si possa fare rispetto ad investire senza un piano ed è quella di non rispettarlo nei momenti in cui sembra non funzionare. Grazie al mio osservatorio privilegiato come consulente finanziario indipendente e responsabile per la tutela del risparmio dell’Aduc, mi capita – purtroppo – di vedere come la paura negli investitori li porti a ripetere sempre gli stessi errori. La paura ottunde il ragionamento. I numeri (ed in particolare i grafici) forniscono la grande illusione di essere oggettivi. Al contrario, i dati da soli non dicono assolutamente niente. E’ l’interpretazione che si fornisce ai dati a fare tutta la differenza. Gli investitori, sotto l’effetto della paura, in genere forniscono la seguente interpretazione: la scelta seguita va cambiata perché non ha funzionato come si aspettavano e già ci si proietta con la mente al fatto che funzionerà sempre peggio, quando è verò l’esatto opposto. La finanza attraversa sempre cicli!

In conclusione, l’affacciarsi di un’inflazione consistente nell’economia cambia profondamente lo scenario finanziario di medio periodo anche se economicamente non è così preoccupante. Se sei un investitore che non ha ancora un piano d’investimento, oggi è ancora più importante di sempre iniziare a costruirlo. Se sei uno dei pochi investitori che ha già un piano, questi sono i momenti nei quali è fondamentale essere disciplinati e coerenti. I movimenti attuali delle principali variabili finanziarie non sono tali da prendere in considerazione l’idea di cambiare un qualsiasi piano finanziario che sia stato realizzato in modo sufficientemente razionale. Se sono fatti bene, i piani finanziari si cambiano quando cambiano le necessità di vita dell’investitore, non perché salgono o scendono i tassi o i prezzi delle azioni.

 

Nota

Ecco alcuni articoli di esempio, sul concetto di debito pubblico, scritti negli anni passati nei quali imperversava la tesi sull’“austerity” in economia, tesi già in crisi dopo il “whatever it takes” di Mario Draghi e poi “sepolta” dalla pandemia:

– “Il debito pubblico italiano è sostenibile?” – Giugno 2010 “Il debito pubblico italiano (come non ve lo ha mai raccontato nessuno)” – Settembre 2013

– “Perché abbiamo un elevato rapporto Debito/PIL e come risolvere il problema?” – Dicembre 2013

– “Il problema dell’Italia non era il debito pubblico?” – Dicembre 2014

 

Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio