
Da più di 20 anni, genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità, età, religione, nazionalità e ruolo organizzativo sono gli otto pilastri, il cosiddetto “Big 8” coniato da Plummer, su cui si fondano i modelli di diversità e inclusione delle aziende. Otto dimensioni considerate fondamentali per creare luoghi di lavoro equi e inclusivi. Ma c’è una vistosa omissione in questo elenco: la classe sociale e in particolare, la classe sociale d’origine. Si tratta di un fattore che, secondo un corpus crescente di ricerche, influenza profondamente le opportunità di carriera, i comportamenti organizzativi e le interazioni sociali sul posto di lavoro (Colaiacovo, Guerci, Carollo e Laudadio, 2025).
L’analisi di Ingram e Oh (2022) sulla lista DiversityInc 2019 delle 50 aziende più impegnate nella diversità ha rivelato che nessuna menzionava la classe sociale nelle proprie dichiarazioni programmatiche. Questa omissione alimenta la narrazione secondo cui il successo professionale dipenda esclusivamente dall’impegno individuale e dal merito, ignorando le barriere strutturali che gli individui provenienti da classi sociali svantaggiate affrontano quotidianamente.
Una discriminante potente e invisibile
La classe sociale d’origine non è semplicemente una questione di reddito familiare. È un costrutto multidimensionale che comprende livello di istruzione, occupazione, ricchezza, reti sociali, esposizione culturale e persino modelli di pensiero e comportamento appresi nell’infanzia. Come evidenziato da Côté (2011), «la classe sociale rappresenta una dimensione del sé radicata sia nelle risorse materiali oggettive (reddito, istruzione e prestigio occupazionale) sia nelle percezioni soggettive del proprio rango rispetto agli altri». Il suo impatto è pervasivo. Secondo Loignon e Woehr (2018), la classe sociale influenza le persone «dal momento dell’assunzione attraverso la progressione di carriera fino all’uscita dall’organizzazione». Rispetto ad altre dimensioni della diversità, riceve un’attenzione minima nelle discussioni aziendali e nelle politiche di inclusione.
Perché è così difficile parlare di classe sociale
La riluttanza ad affrontare la classe sociale nei contesti aziendali deriva da molteplici fattori:
- La narrazione del merito: l’ideologia dominante nelle organizzazioni occidentali suggerisce che il successo sia principalmente determinato dall’impegno e dalle capacità individuali, minimizzando il ruolo dei vantaggi strutturali.
- L’invisibilità relativa: mentre caratteristiche come genere ed etnia sono spesso immediatamente visibili, la classe sociale può manifestarsi in modi più sottili attraverso l’accento, il linguaggio, i riferimenti culturali o le reti sociali.
- Il disagio culturale: in molte società, parlare apertamente di differenze di classe è considerato un tabù sociale, poiché sfida l’ideale di una società aperta e paritaria.
- La complessità di misurazione: a differenza di altre dimensioni della diversità, la classe sociale è difficile da quantificare in modo oggettivo e standardizzato.
L’impatto misurabile della classe di provenienza sulle carriere
Accesso all’impiego
Le ricerche di Rivera (2015) e Ashley e Empson (2013) hanno dimostrato che i processi di selezione delle organizzazioni d’élite favoriscono inconsapevolmente i candidati provenienti da background socioeconomici privilegiati. Questo avviene attraverso vari meccanismi:
- Preferenza per laureati di università prestigiose, che tendono a servire in modo sproporzionato studenti di classe elevata.
- Valutazione di esperienze extracurricolari (come sport specifici, viaggi internazionali o attività culturali) più accessibili a giovani provenienti da famiglie benestanti.
- Ricerca di comportamenti che evidenziano un “adattamento culturale” alle norme, valori e comportamenti della classe media e alta.
Avanzamento di carriera
Una volta entrati in un’organizzazione, le disparità persistono. Kish-Gephart e Campbell (2015) hanno evidenziato come i dipendenti provenienti da classi sociali inferiori:
- Ricevano meno opportunità di mentorship e sponsorship.
- Abbiano reti professionali meno influenti.
- Vengano valutati in base a criteri che premiano comportamenti e stili comunicativi associati a classi più elevate.
- Debbano affrontare il fenomeno del “soffitto di classe”, simile al più noto “soffitto di vetro” relativo al genere.
Leadership e posizioni decisionali
Ai vertici aziendali, la disparità diventa ancora più evidente. Secondo Laurin e Engstrom (2020), gli individui provenienti da background socioeconomici elevati hanno una probabilità molto più alta di raggiungere posizioni di leadership. Questo non solo perpetua le disuguaglianze ma limita anche la diversità di prospettive nei processi decisionali aziendali.
Le differenze psicologiche tra classi sociali
Uno degli aspetti più affascinanti della ricerca sulla classe sociale riguarda le differenze psicologiche che emergono tra individui provenienti da background socioeconomici diversi. Queste differenze influenzano profondamente i comportamenti lavorativi e le interazioni organizzative.
Tra le varie dimensioni psicologiche influenzate dalla classe sociale, il locus of control merita un’attenzione particolare per il suo profondo impatto sulle traiettorie professionali. Il locus of control si riferisce alla misura in cui le persone credono di avere controllo sugli eventi della propria vita. Individui con un locus di controllo interno tendono a credere che i risultati siano principalmente determinati dalle proprie azioni e decisioni. Al contrario, coloro con un locus di controllo esterno percepiscono gli eventi come influenzati principalmente da forze esterne come la fortuna, il destino o azioni di persone potenti. Le ricerche di Kish-Gephart et al. (2023) evidenziano che persone cresciute in ambienti socioeconomici svantaggiati tendono a sviluppare un locus di controllo più esterno. Questa tendenza è comprensibile: crescere in contesti con risorse limitate, dove gli eventi negativi possono essere frequenti e imprevedibili, insegna che molti aspetti della vita sono al di fuori del proprio controllo personale.
Questa differenza ha profonde implicazioni nel contesto lavorativo:
- Assunzione di rischi: individui con locus di controllo esterno tendono ad essere più avversi al rischio, potenzialmente rinunciando a opportunità di avanzamento che comportano incertezza.
- Iniziativa personale: la tendenza a vedere i risultati come determinati da fattori esterni può ridurre la propensione a prendere iniziative o a cercare attivamente opportunità di crescita.
- Negoziazione e self-advocacy: la percezione di avere meno controllo sugli esiti può rendere meno propensi a negoziare per salari più alti o migliori condizioni lavorative.
- Resilienza: di fronte a fallimenti o battute d’arresto, individui con locus di controllo esterno possono essere più inclini a scoraggiarsi, vedendo gli ostacoli come conferme della loro limitata capacità di influenzare gli eventi.
Il paradosso è che questa differenza psicologica, radicata in esperienze di classe reali, finisce per essere interpretata attraverso la lente individualistica dominante nelle organizzazioni. Anziché riconoscere il locus di controllo esterno come un adattamento razionale a circostanze strutturali, viene spesso visto come una carenza personale di motivazione, ambizione o resilienza. La psicologia ha promosso il locus of control interno come modalità preferenziale per il successo.
Il “class work”: come le differenze si perpetuano
Gray e Kish-Gephart (2013) hanno introdotto il concetto di “class work” per descrivere i processi attraverso cui le disuguaglianze di classe vengono mantenute nelle interazioni quotidiane sul posto di lavoro. Il class work comprende i rituali, le pratiche e i comportamenti che individui di diverse classi sociali adottano quando interagiscono tra loro. Gli incontri tra persone di diverse classi sociali generano ansia e identità minacciate (es. un impiegato di classe operaia che interagisce con dirigenti di classe alta può sentirsi inadeguato). La reazione più comune è normalizzare le disuguaglianze, accettando la narrativa della meritocrazia. Ma, con il tempo, le pratiche individuali di class workdiventano norme organizzative che mantengono le disuguaglianze e si sviluppano “barriere invisibili” come il linguaggio, le aspettative comportamentali, il networking esclusivo e l’accesso preferenziale alle opportunità. Le strategie di class work sono diverse per ciascuna classe sociale.
Classe alta | Minimizzare le differenze, “umanizzare” i colleghi di classe sociale inferiore (es. con sorrisi o gesti paternalistici), evitare contatti con altre classi attraverso l’uso dell’esclusività sociale. |
Classe media | Distinguersi dai gruppi più poveri, enfatizzare il proprio merito e le proprie credenziali educative, adottare simboli culturali della classe alta per “passare” come élite. |
Classe bassa | Accettare la narrativa della meritocrazia, tentare di nascondere la propria origine sociale, adottare un’identità alternativa (es. enfatizzando il duro lavoro o la morale superiore rispetto ai ricchi). |
Queste pratiche contribuiscono collettivamente a mantenere lo status quo e a rendere invisibili le disparità strutturali. Tutti concorrono a “naturalizzare” le differenze di classe, presentandole come il risultato inevitabile di differenze in ambizione o capacità ed evitano discussioni esplicite su privilegi e svantaggi di classe. Il risultato è anche la segregazione informale degli spazi di lavoro e dei momenti sociali.
Verso l’inclusione della classe sociale nei modelli di diversità
L’inclusione della classe sociale nei modelli di diversità e inclusione aziendali non è solo una questione di equità, ma anche di efficacia organizzativa. Le ricerche suggeriscono che organizzazioni che riconoscono e affrontano le disparità basate sulla classe possono beneficiare di:
- Un pool di talenti più ampio e diversificato.
- Maggiore innovazione grazie alla diversità di prospettive ed esperienze.
- Miglioramento del benessere e dell’engagement dei dipendenti.
- Maggiore comprensione di clienti e mercati diversificati.
Per integrare efficacemente la classe sociale nei modelli di diversità, le organizzazioni possono:
- Riconoscerla come dimensione critica: includere esplicitamente la classe sociale nelle politiche e nelle discussioni sulla diversità.
- Raccogliere dati (rispettando la privacy): sviluppare metodologie appropriate per monitorare l’inclusione di persone provenienti da diverse classi sociali.
- Rivedere i processi di reclutamento: implementare pratiche come il “blind recruitment” e ampliare le fonti di reclutamento oltre le istituzioni d’élite.
- Creare programmi di supporto mirati: sviluppare iniziative di mentoring e sviluppo professionale che riconoscano le sfide specifiche affrontate da individui provenienti da classi sociali svantaggiate.
- Formare manager e dipendenti: aumentare la consapevolezza sulle dinamiche di classe e sul loro impatto nel contesto lavorativo.
Il coraggio di tornare a parlare di classi sociali d’origine
L’omissione della classe sociale d’origine dai modelli dominanti di diversità e inclusione non è casuale. Riflette la persistente influenza dell’ideologia meritocratica, che attribuisce il successo principalmente all’impegno e al talento individuali, oscurando il ruolo dei vantaggi strutturali. Riconoscere l’impatto della classe sociale nelle carriere professionali richiede un cambio di paradigma: da una visione puramente individualistica del successo a una comprensione più sfumata delle interazioni dimensioni personali e contesto. Le organizzazioni che aspirano a creare ambienti veramente inclusivi dovrebbero ampliare la loro concezione di diversità per includere la classe sociale, riconoscendo che questa dimensione, come genere, etnia o orientamento sessuale, ha un profondo impatto sulle esperienze e opportunità dei loro dipendenti. Solo incorporando la classe sociale nei nostri modelli di diversità possiamo sperare di costruire luoghi di lavoro che permettano a tutti i talenti di prosperare, indipendentemente dal loro punto di partenza nella gerarchia sociale.
Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy