Sfogliando Questione di Merito (ed. Guerini e Associati) e guardando all’Italia di ieri e, purtroppo, di oggi, un certo sgomento non si può nascondere. Con questo saggio, Maria Cristina Origlia ha deciso di muoversi su un terreno scomodo. Giornalista, attualmente Presidente del Forum della Meritocrazia (https://forumdellameritocrazia.it/), l’autrice conosce molto a fondo le dinamiche socio-economiche su cui si regge il mondo aziendale in tutte le sue articolazioni organizzative e produttive, grazie all’esperienza accumulata negli anni in cui ha diretto il magazine L’Impresa (del Gruppo Il Sole-24Ore) la prima rivista di cultura manageriale editata in Italia. Il volume dà voce a importanti testimoni dell’innovazione che hanno deciso di “condividere il Pianeta” facendone la loro casa, impegnati nell’affermare valori troppo spesso dimenticati, come quello dell’intelligenza e della competenza.
Lo studio risponde ad un “dovere civile” perché, come sappiamo, per parlare di merito alle nostre latitudini ci vuole senso della sfida ed esercizio di coraggio. Il tema ruota attorno ad una letteratura molto ampia: come è noto almeno dalla fine della Prima Repubblica l’Italia lamenta una crisi della classe dirigente. L’ultimo capitolo di una storia destinata a durare ancora a lungo lo ha riaperto Ferruccio de Bortoli in un recente intervento sul Corsera, e sta generando un ampio dibattito. Probabilmente la fotografia più efficace del problema la si ritrova in un’originale raccolta di “appunti” come L’Italia del “nì” (Minerva Edizioni) di Gian Maria Fara, il quale da molti anni denuncia l’imbarbarimento e l’appiattimento del dibattito pubblico di casa nostra. Fara parla di “qualipatia” come di un fenomeno che certifica l’esatta negazione della promozione del talento e del merito: «una patologia che si sta allargando a macchia d’olio – scrive il sociologo, Presidente dell’Eurispes – che archivia l’essere e santifica l’apparire, che esalta il contenitore a discapito del contenuto, che premia l’appartenenza e mortifica la competenza».
Dott.ssa Origlia cominciamo la nostra discussione dalla crisi dell’élite. Il suo lavoro ha il profilo di un’inchiesta aperta che sta continuando il suo percorso originale con delle conversazioni settimanali, talk on air, che utilizzano la rete come piattaforma di “intelligenza collettiva”. Quale ripresa possiamo progettare, in questa tanto pubblicizzata Fase 2, se continuiamo a mortificare il sapere su cui dovrebbe reggersi la complessa impalcatura della società in cui viviamo?
Nell’introdurre la nostra conversazione lei parlava di coraggio, un termine essenziale che penso abbia ispirato la stessa denuncia di Fara. Luciani Manicardi, Priore di Bose, ne dà una perfetta definizione che cito testualmente: «la virtù di dare inizio, è atto creativo, è forza che spezza le corazze difensive della paura e della viltà e osa cominciare qualcosa di difficile». Dobbiamo partire da questo, recuperando il senso della sfida, a cominciare dalla riaffermazione dell’etica che deve stare al centro di ogni progetto di ricostruzione socio-economica del Paese. La devastazione generata dalla pandemia ha scoperchiato e accelerato fenomeni già in atto: le crescenti diseguaglianze rischiano di trasformarsi in sperequazioni difficili da recuperare se non si reagisce subito con scelte politiche oculate.
Su Meritocrazia nei rapporti di lavoro è imperniato un importante webinar organizzato dal Forum che Lei presiede, previsto per il prossimo 8 giugno, il quale sarà patrocinato dalla Regione Lombardia e che vedrà la partecipazione di CIDA e Assolombarda. È così grave la situazione anche in un contesto regionale che siamo abituati a identificare come “motore economico” del Paese?
La crisi del lavoro che si intreccia con l’eclissi del merito si presenta molto grave in tutte le realtà territoriali. La precarietà sta gettando milioni di persone – spesso giovani e donne – in uno stato di preoccupazione intollerabile per il futuro. Come sostiene in molti interventi Marco Bentivogli – che sta conducendo una vera e propria battaglia su questo terreno – la prossima frontiera è la dignità del lavoro, da ritrovare con nuove formule di occupazione e di tutele. La World Bank sta studiando a fondo questo aspetto, per chi lo volesse approfondire rimando al colloquio – riportato nel mio lavoro – che ho avuto con Federica Saliola.
L’equilibrio tra uomini e donne caratterizza l’insieme di voci che compongono il saggio. Il problema della disparità professionale, retributiva, oltre che culturale è, probabilmente, l’indice più eloquente di quella diseguaglianza cui lei accennava prima, la quale genera un malessere diffuso nella società. Nel suo lavoro viene affrontato questo aspetto con Alessandra Perrazzelli che opera ai vertici della Banca d’Italia. Quali indicazioni emergono?
Senza troppi giri di parole: quello che ci vuole è una rivoluzione gentile ma irreversibile, che porti a sovvertire il sistema di potere che vige in Italia da secoli. Se un paese funziona secondo criteri meritocratici – garantendo il più possibile pari opportunità a tutti – le discriminazioni vengono tenute sotto controllo. Se così non è, allora a prevalere è la cultura dominante, esercitata da gruppi di potere – in tutta Europa costituiti da maschi, bianchi, con più di 60 anni, come dimostrato da diverse ricerche – che, a volte, anche inconsapevolmente grazie agli unconscious bias, perpetrano la loro visione del mondo, scegliendosi sempre tra di loro e finendo col creare un’élite fortemente motivata a difendere i privilegi acquisiti. È stato notato, in questi mesi, che i paesi governati da premier donne hanno gestito meglio l’emergenza. Il ragionamento, forse, non è dimostrabile con esattezza matematica, ma l’indizio appare chiaro: siamo di fronte a paesi migliori perché hanno posto in essere meccanismi di selezione che hanno portato ai vertici le donne.
Lei affida a Ilaria Capua – studiosa che abbiamo imparato a conoscere molto bene in questi mesi – un capitolo cruciale come quello del rapporto tra scienza e competenza. Nel difficile momento che stiamo attraversando la competenza ha dettato per la prima volta l’agenda. Alt all’uno vale uno, la politica sembra aver fatto un passo indietro per ascoltare chi ne sa di più. Quando sarà passata la pandemia torneranno a prevalere le abituali, cattive abitudini?
Mai come in questa circostanza è risultato evidente quanto Amartya Sen, Fitoussi e altre menti illuminate sostengono da anni: la complessità del mondo e delle sue problematiche è diventata tale da esigere una goverance capace di avere una visione sistemica, sorretta da valide competenze, possibilmente multidisciplinari. Solo per fare un esempio, la Germania – per affrontare la situazione di emergenza scatenata dal Covid-19 – ha costituito una sola task force. Noi ne abbiamo create fin troppo e tutte mono-disciplinari (e molto maschili). Il risultato è che si è programmata la riapertura delle attività senza riflettere sulle conseguenze di una mancata riapertura delle scuole sino a settembre, con effetti devastanti sull’occupazione femminile, già particolarmente colpita dalla chiusura dei settori quali il turismo e la ristorazione. Del resto, era difficile aspettarsi altro in un Paese dove mancano politiche per le famiglie, una dinamica su cui insiste molto bene l’economista Daniela Del Boca. Temo che la politica in Italia sia molto refrattaria a perdere vecchi vizi e ad abbracciare nuove virtù. Ricordo che proprio Ilaria Capua, mentre era deputata, è stata vittima di un processo studiato a tavolino, basato sul nulla, da cui è uscita dopo 5 anni – quando ormai era andata via dall’Italia – totalmente scagionata perché il fatto non sussisteva.
Gli spazi raccontano l’identità. Nell’emergenza tutti parlano da casa, il topos è linguaggio, la culla-rifugio delle pareti domestiche, è anche il luogo di manifestazione della propria presenza professionale. In questa dimensione pascoliana, raccolti in noi stessi, stiamo cercando di recuperare l’altro da noi. Massimo Recalcati ha scritto: «stiamo scoprendo una solidarietà introversa, l’unica luce nel buio in cui siamo immersi è questa emersione dell’alterità, anche se mediata dalla Rete». Gli studiosi che ha coinvolto nel suo percorso di ricerca quale lettura offrono della contemporaneità?
Tutti gli interlocutori esprimono una visione del mondo interiore ed esteriore, frutto dell’esercizio di un pensiero critico allenato e di uno sguardo disincantato ma, al tempo stesso, profondamente fiducioso verso la vita. Sono persone che coltivano una vita spirituale che assume le sembianze dell’impegno pubblico nel momento in cui non si accontentano dei loro successi, non si crogiolano nelle prestigiose posizioni raggiunte, né si ripiegano a goderne i privilegi. Piuttosto, mostrano un forte senso di responsabilità verso se stessi e verso la collettività e lo dimostrano esercitando una leadership autentica.
«A chi mi ha cresciuta all’insegna di princìpi e valori inderogabili»: la dedica del libro è molto eloquente, perché tocca la “radice” che ci ha nutrito, quella da cui tutti proveniamo. La crisi di un capitalismo globale che sta mostrando la corda va, prima di tutto, pesata sul piano morale?
Il racconto corale che emerge nella tessitura del libro delinea il profilo di un neoumanesimo digitale, che comporta un’evoluzione del capitalismo verso un modello di sviluppo equilibrato, inclusivo, consapevole di quel rapporto vitale che deve istituirsi tra l’essere umano e il Pianeta, purtroppo disatteso da troppo tempo. Il digitale, interiorizzato attraverso una «filosofia del nostro tempo per il nostro tempo», come sostiene il filosofo dell’Università di Oxford Luciano Floridi (altra intelligenza costretta a lasciare l’Italia NdR), può essere un formidabile alleato per una rinascita reale, se sapremo governare questo straordinario strumento con intelligenza e lungimiranza.
Il senso del limite, quel rapporto tra l’essere umano e l’ambiente che diceva prima, lo abbiamo rimosso, credendoci i padroni assoluti del Pianeta. Torna alla mente la hybris, la tracotanza di Prometeo che, come ci insegna il mito greco, ruba il fuoco per sfidare gli dei incorrendo per questo nella punizione. Oggi non è più ammesso un simile comportamento, essendo a rischio la sopravvivenza della specie umana. Roberto Cingolani – fisico di fama internazionale, già Direttore dell’IIT di Genova e oggi Chief Technology & Innovation Officer della Fondazione Leonardo – insiste molto sul delicato rapporto tra uomo e macchina, tra l’essere e le tecnologie. Che cosa pensa in proposito?
Il senso del limite appartiene ai “saggi”, a tutti coloro che si ricordano, ogni giorno, della mortalità e dell’impotenza che connota la naturale condizione umana di fronte agli eventi. Gli accadimenti tragici che costellano la storia dell’umanità – dai cataclismi, alle guerre, alle pandemie – hanno spesso generato un salto evolutivo della coscienza individuale. Ed è interessante notare come ad ogni salto si siano sviluppate nuove forme di collaborazione e convivenza tra gli esseri umani e, con esse, forme inedite di governo e di organizzazione della società. Oggi sappiamo di essere entrati in una nuova era geologica, detta Antropocene, la prima in cui la sopravvivenza del Pianeta dipende solo dalla mano dell’uomo. Scienziati e antropologi concordano sul fatto che si rende ora necessario un ulteriore balzo della coscienza collettiva tesa all’addomesticamento dell’Io, che servirà a sviluppare nuove forme di convivenza, basate sulla collaborazione e sulla fiducia. La pandemia ci ha offerto un’imperdibile occasione per risvegliarci. E, forse, l’Europa, nonostante le sue manchevolezze, sta dando una delle riposte politiche più mature, mettendo al centro delle sue scelte il bene comune. Credo che le differenze preesistenti tra i paesi membri non possano essere strumentalizzate per negare il valore storico di quelle scelte.
“Declino” è un termine difficile con cui abbiamo imparato a fare i conti. Esistono delle ragioni per essere ottimisti?
Il declino non è un destino ineluttabile per l’Italia, credo abbia ragione Carlo Cottarelli, studioso abituato a fare i conti con la realtà. Per vincere però il pessimismo, abbiamo tutti bisogno di un bagno di sano realismo. Lo dico in estrema sintesi: dobbiamo smetterla di nasconderci dietro l’Euro come se fosse la causa della perdita competitiva delle nostre imprese e dovremmo, invece, affrontare una buona volta quelle riforme strutturali che andiamo ripetendo da decenni e che si sono tramutate, la definizione è dello stesso Cottarelli, nei «sette peccati capitali». Per far questo dovremmo avere il coraggio, e la perseveranza, di operare una vera rivoluzione culturale che metta al centro le competenze, il merito – come combinazione di talento e impegno – e l’etica, attraverso una seria operazione di trasparenza, semplificazione, condivisione dei criteri di selezione e valutazione delle persone. Avere il coraggio di premiare l’eccellenza e replicarla significa prendere posizione, andare contro il pensiero dominante di un’élite – questa sì in irreversibile declino – che, di fatto, teme il merito come se fosse il peggior nemico da combattere, anziché un valore da promuovere.
Dieci proposte per l’Italia recita il sottotitolo. Non Le chiedo certo un elenco pronto all’uso, piuttosto che si soffermasse ancora su due termini che presentano una forte radice innovativa: economia generativa e impact economy. Di che cosa si tratta?
Parlando di evoluzione del capitalismo verso forme più intelligenti di sviluppo, si incrociano diverse tendenze già in atto, che hanno subìto un’accelerazione dalla crisi nata dall’emergenza sanitaria. Il fronte più avanzato della storica corrente di pensiero dell’economia civile è la generatività. Si tratta di un nuovo approccio che vale sia a livello individuale, sia a livello di misure politiche e iniziative economiche, caratterizzato dalla messa in atto di azioni e misure che possono avere delle ricadute misurabili in termini di arricchimento del capitale sociale. Si tratta di un processo che si innesca solo quando il singolo si mette in moto, spinto dalla consapevolezza che il beneficio apportato agli altri può generare un vantaggio anche per se stesso. La responsabilizzazione personale è, insomma, la chiave di tutto in questa dinamica. Questa visione, cui aderisce l’economista Leonardo Becchetti, si combina molto bene con gli strumenti della impact economy, di cui Giovanna Melandri è una delle più convinte interpreti. Si tratta di un movimento globale che nel nostro Paese si concretizza nella Social Impact Agenda per l’Italia, la quale ha l’ambizione di avviare un nuovo modello di politiche pubbliche finalizzate a riorientare gli investimenti privati verso iniziative a impatto sociale, remunerati sulla base della misurazione dei risultati raggiunti. Siamo di fronte a un rivolgimento profondo, in grado di provocare un salto di qualità epocale nella gestione delle nostre politiche pubbliche, che potrebbe essere funzionale a sorreggere il processo di ricostruzione in atto.
In conclusione, vorrei richiamarmi a un passaggio della prefazione di Antonio Calabrò. Utopia e riformismo sono, infatti, al centro dell’analisi: il direttore della Fondazione Pirelli, chiama in causa il grande Ernst Cassirer, che individuava nel “pensiero simbolico” (di cui è stato tra i massimi esponenti) quella forza che ci nutre e ci spinge a credere nei sogni, a gettare lo sguardo oltre i muri dell’ignoranza e dell’incultura. La ricetta di Calabrò sottintende un chiaro riferimento alla rivalutazione del nucleo familiare e alle politiche di un welfare illuminato e innovativo, senza di cui sarà impossibile ridare benzina al motore della crescita umana e civile dell’Italia. Non crede che, anche in questa emergenza, abbiamo dimenticato le esigenze delle famiglie e delle donne con troppa superficialità?
Non c’è dubbio che il welfare sia l’architrave su cui debba basarsi lo sviluppo sostenibile, così come è definito dall’Agenda ONU 2030. Un welfare inteso in senso ampio, che interpreti quella categoria del benessere che comprende la dimensione spirituale accanto a quella materiale della vita umana. Garantire la dignità e la libertà, intesa come espressione del proprio potenziale, che vuol dire costruire il proprio progetto di vita e di professione, sono elementi indispensabili per far crescere una società sana. Solo a queste condizioni potremo restituire quella fiducia alle nuove generazioni necessaria per pensare a un futuro per la famiglia, capace di invertire quel drammatico trend di natalità che, come sappiamo, caratterizza il nostro Paese, interpretabile come un chiaro segnale di abbandono della speranza e di rinuncia a cercare un senso profondo dell’esistenza. Se non si inverte la rotta al più presto, quello stato di paura – che Bauman ha così ben descritto quale tratto essenziale della contemporaneità – finirebbe con l’avere il definitivo sopravvento, conculcando ogni spazio di libertà e di serenità possibile.