di Davide Romano
Atene, 399 a.C. – In una giornata afosa, sotto il cielo terso dell’Attica, si è consumato uno degli eventi più significativi della storia della filosofia e della giustizia umana. Socrate, il filosofo che ha fatto del dubbio la sua arma e della maieutica il suo metodo, è stato condannato a morte. Il tribunale ateniese, composto da 501 cittadini estratti a sorte, lo ha giudicato colpevole di empietà e corruzione dei giovani. Ma chi era davvero Socrate, e perché la sua difesa, oggi nota come l’Apologia, risuona ancora come un monito contro l’ignoranza e l’ingiustizia?
Socrate, settantenne, con la barba incolta e gli occhi penetranti, si è presentato davanti ai giudici senza un avvocato. Ha scelto di difendersi da solo, con le parole che lo hanno reso celebre e inviso ai potenti. “Non so, o Ateniesi, quale impressione abbiate ricevuto dai miei accusatori”, ha esordito, “ma io, per me, per poco non mi sono dimenticato di me stesso, tanto persuasivamente parlavano”. Con questa ironia tipicamente socratica, il filosofo ha iniziato la sua difesa, consapevole che il verdetto era già scritto.
Le accuse contro di lui erano due: non riconoscere gli dèi della città e introdurre nuove divinità, e corrompere i giovani insegnando loro a dubitare delle autorità. Accuse gravissime, che Socrate ha smontato con la logica implacabile che lo ha reso celebre. “Se io corro i giovani, chi li migliora?”, ha chiesto ai giudici, mettendoli di fronte alla contraddizione delle loro stesse parole. Ma i giudici, forse infastiditi dalla sua lucidità, non hanno apprezzato il suo tono.
Socrate ha poi raccontato di come il suo amico Cherofonte si sia recato a Delfi per chiedere all’oracolo chi fosse l’uomo più sapiente della Grecia. La Pizia aveva risposto: “Socrate”. “Io, sapiente?”, ha detto il filosofo, “Ma io so di non sapere!”. Eppure, ha deciso di mettere alla prova l’oracolo, interrogando politici, poeti e artigiani. Ha scoperto che tutti credevano di sapere, ma in realtà non sapevano. “Ecco perché sono odiato”, ha spiegato, “perché svelo l’ignoranza di chi si crede sapiente”.
Ma Socrate non si è limitato a difendersi. Ha sfidato i giudici, dicendo: “Anche se mi assolvete, non cambierò il mio modo di vivere. Continuerei a interrogare chiunque incontri, perché una vita senza esame non è degna di essere vissuta”. Parole che hanno fatto infuriare i giudici, ma che hanno anche rivelato la grandezza di un uomo disposto a morire pur di non tradire i suoi principi.
Alla fine, il verdetto è stato emesso: 280 voti per la colpevolezza, 221 per l’assoluzione. Socrate è stato condannato a morte. Ma anche di fronte alla sentenza, il filosofo ha mantenuto la sua ironia. “Non mi aspettavo una maggioranza così stretta”, ha commentato, “pensavo di perdere con più voti”. Poi ha aggiunto: “Non è difficile sfuggire alla morte, Ateniesi; molto più difficile è sfuggire alla malvagità, che corre più veloce della morte”.
Socrate ha rifiutato la possibilità di fuggire, offertagli dai suoi discepoli. “Che esempio darei ai giovani se violassi le leggi della città?”, ha detto. E così, ha bevuto la cicuta, il veleno che gli ha tolto la vita, ma non la dignità. La sua morte è stata un atto di coerenza estrema, un monito per tutti coloro che credono nella giustizia e nella verità.
Oggi, a distanza di secoli, l’Apologia di Socrate rimane un testo fondamentale, non solo per la filosofia, ma per chiunque creda nel potere delle idee. Socrate non ha scritto nulla, ma le sue parole, trascritte da Platone, continuano a risuonare come un invito a non smettere mai di dubitare, di interrogare, di cercare la verità. E se oggi Atene è ricordata come la culla della democrazia, lo si deve anche a quell’uomo che, con la sua morte, ha dimostrato che la libertà di pensiero è più forte della paura.