Non dimentichiamo i tanti uomini e donne che trascorreranno un Natale di guerra e di persecuzione. Assieme alle guerre di Ucraina e di Gaza si è combattuto, negli ultimi due anni, un terzo conflitto alle cui vicende si è prestata, però, molta meno attenzione. Mi riferisco al Nagorno Karabakh un territorio dove santuari e monasteri risalenti al primo secolo sono il simbolo dell’essenza cristiana della regione. In questi due anni i 130mila abitanti di quell’enclave cristiana sono stati costretti a un drammatico esodo di massa.
Eppure la loro tragedia è rimasta sorda e inascoltata. In loro difesa non si è levata una sola voce. Questo sciagurato silenzio ci ricorda come il conflitto del Nagorno Karabakh rientri nell’immensa tragedia delle comunità cristiane perseguitate.
Alessandro Monteduro direttore di Acs «Aiuto alla Chiesa che soffre» – la Fondazione della Santa Sede, deputata alla salvaguardi della libertà religiosa – affronta così, in vista del Natale, il tema della persecuzione dei cristiani. Un tema spesso dimenticato ignorato o sottovalutato, ma le cui cifre non sono meno tragiche di quelle della guerra in Ucraina o a Gaza. Secondo Acs almeno 360 milioni di cristiani nel mondo sperimentano «alti livelli di persecuzione e discriminazione a motivo della loro fede». I Paesi dove la libertà religiosa non viene rispettata sono quelli più popolosi del mondo. Dalla Cina all’India, dal Pakistan al Bangladesh per arrivare in Nigeria, Burkina Faso e Pakistan le violazioni della libertà di fede riguardano, direttamente o indirettamente, quasi 5 miliardi di persone. Di fronte a questa immensa persecuzione il mondo occidentale se ne frega delle libertà religiose. Anche, o soprattutto, quando sono in ballo quelle dei nostri fratelli cristiani. «Accettare l’idea che si possa morire per non abiurare alla propria fede – spiega Monteduro – è qualcosa che stride con il relativismo politico e ideale dilagante nella nostre società. Accettare l’idea che 120mila cristiani della piana di Ninive in Iraq abbiano abbandonato tutto pur di non rinunciare alla propria identità e alla fede in Cristo significa misurarsi con un’idea di libertà religiosa che l’Occidente non comprende più. Anche perché l’ha relegata a un livello inferiore rispetto alle libertà più di moda come le libertà sessuale o la libertà di genere».
Prendiamo il caso del Burkina Faso, dove il 50% del suo territorio è in mano a micro-califfati e i cristiani sono costretti alla fuga per timore di quest’avanzata jihadista. Se guardiamo le cifre dei flussi migratori provenienti dalle coste del Nord Africa, tra le prime dieci nazionalità dei migranti sbarcati in Italia quest’anno scopriamo che quelli provenienti dal Burkina Faso sono letteralmente decuplicati passando dai circa 300 del 2022 agli 8.410 di quest’anno. Con un paradossale incremento del 2.512%.
Sarà certamente un Natale amaro per Jimmy Lay, l’imprenditore e attivista pro-democrazia, processato a Hong Kong, accusato di sedizione e collusione con forze straniere, reati che ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale verrebbero puniti con la pena dell’ergastolo. Lai – 76 anni, cattolico, fondatore del giornale indipendente Apple Daily, costretto alla chiusura dalle autorità comuniste nel 2021– è già in carcere da più di mille giorni, dopo la stretta imposta da Pechino che nel 2020 ha portato dietro le sbarre tutti i protagonisti del movimento pro-democrazia e sta già scontando una condanna a cinque anni e nove mesi per “frode”, sulla base di accuse legate ai finanziamenti del giornale.
Jimmy Lai è apparso magro ma sorridente: ha salutato da lontano la moglie Teresa presente in aula, insieme a tanti amici tra cui il card. Joseph Zen, che a 92 anni e dopo essere stato lui stesso alla sbarra come imputato ha voluto in questo modo esprimere il proprio sostegno al fondatore dell’Apple Daily. Fuori dal tribunale – tra le forze dell’ordine in assetto di massima sicurezza, con persino un furgone anti-bomba come parte della narrazione del “pericolo” rappresentato da Jimmy Lai – è andata in scena la protesta pacifica di Alexandra Wong, 67 anni, attivista pro-democrazia conosciuta come “nonna Wong”. Ha gridato “Sostengo Jimmy Lai perché voglio la verità. Voglio leggere di nuovo l’Apple Daily”, prima di essere portata via dalla polizia.
Jimmy Lai pur avendo come molti cittadini di Hong Kong un doppio passaporto, gli è stata negata nei mesi scorsi la possibilità di essere difeso dall’avvocato britannico Timothy Owen, un giurista di fama internazionale. Jimmy Lai è accusato di aver cospirato per stampare, pubblicare, vendere o distribuire “pubblicazioni sediziose” tra l’aprile 2019 e il 24 giugno 2021 – quando l’ultima edizione dell’Apple Daily è stata pubblicata in seguito a un raid della polizia e all’arresto anche degli altri dirigenti.
Intanto a favore di Jimmy Lai ieri è intervenuto il ministro degli Esteri di Londra David Cameron, chiedendone la liberazione in quanto cittadino britannico. “Come giornalista ed editore – ha scritto in una dichiarazione ufficiale – è stato preso di mira in un chiaro tentativo di fermare l’esercizio pacifico dei suoi diritti alla libertà di espressione e di associazione. Chiedo alle autorità di Hong Kong di porre fine all’azione penale e di rilasciare Jimmy Lai”.
DOMENICO BONVEGNA
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