I rapporti scientifici, come quelli che puntualmente da quarantadue anni predispone l’Eurispes, sono utili per fare il punto sullo stato della società italiana, per individuare linee di tendenza che potrebbero essere da supporto per motivare le scelte delle classi dirigenti e favorire la consapevolezza dei cittadini.
Il tema dell’educazione non è uno tra i tanti. Nella società della conoscenza rappresenta il settore decisivo del progresso e dell’innovazione. Non a caso, il premio Nobel per l’economia, Joseph E. Stiglitz, argomenta che negli ultimi due secoli l’umanità è progredita in base all’aumento della capacità di apprendimento, per cui l’educazione dovrebbe venire prima dell’economia. I Parlamenti però si occupano di economia più che di educazione e per una ragione molto semplice: la prima offre risposte immediate mentre la seconda produce risultati a distanza di decenni. L’educazione è il tempo del futuro. L’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile prevede per il 2030 un accesso globale a un’istruzione di qualità per tutti i cittadini del Pianeta. E va rilevato che, mentre nei paesi in via di sviluppo esiste una correlazione diretta tra aumento dell’istruzione e crescita della ricchezza, questo non accade più da tempo nei paesi avanzati, perché occorrono altri fattori che risultano ancora più determinanti. Allora, porre al centro del dibattito pubblico, sia politico sia culturale, il tema dell’educazione rappresenta un’autentica necessità sociale, dato che di fronte a ogni problema che si manifesta, la risposta che viene sistematicamente proposta è sempre la stessa: più educazione.
Nella società della conoscenza l’educazione rappresenta il settore decisivo del progresso e dell’innovazione
Prima di procedere oltre vanno premesse alcune considerazioni. La prima è che le leggi che hanno regolato l’istruzione fin dall’Unità d’Italia sono state spesso controverse. Partiamo già con il piede sbagliato nel 1861 quando viene estesa a tutto il Paese la “legge Casati” che regolava dal 1859 l’istruzione nel Regno di Sardegna. Fin dall’inizio viene sommersa dalle critiche: «De Sanctis primo ministro della P.I. del nuovo Regno le augura brevissima vita, Cavour l’accusa di trascurare l’istruzione tecnica e professionale, Cattaneo la dice indegna del tempo e dell’Italia, cattiva al punto “che non convenga porvi mano per rappezzarne solamente la decima parte”» (T. Tomasi, 1973). La seconda considerazione è che nel bilancio dello Stato italiano la voce dell’istruzione è una di quelle più consistenti in assoluto, essendo di circa 50 miliardi, su circa mille miliardi complessivi. Giova ricordare che la prima voce, pari a circa un terzo dell’intero bilancio (347 miliardi) è rappresentata dal rimborso dei Titoli di stato e relativi interessi, praticamente il debito pubblico (fonte MEF).
Le leggi che hanno regolato l’istruzione fin dall’Unità d’Italia sono state spesso controverse
Per quanto non rappresentino oro colato ma delle interpretazioni, le classifiche internazionali pongono regolarmente l’istruzione scolastica e universitaria del nostro Paese non certo nelle posizioni di testa. Esistono dinamiche globali, che impattano dovunque e sulle quali le possibilità di intervento sono assai relative, come per esempio l’avvento della società digitale, la globalizzazione, il rafforzamento dell’Intelligenza Artificiale. Oltre a queste, tra le dinamiche globali, vanno ricompresi l’effetto Flynn inverso e la paradossale diffusione dell’ignoranza. Nel 1987 lo psicologo statunitense James Robert Flynn aveva teorizzato che il quoziente intellettivo medio fosse aumentato dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. E questo in virtù del miglioramento dell’alimentazione, dell’aumento della scolarizzazione e dello sviluppo economico, sociale e culturale. Studi successivi, ai quali ha contribuito lo stesso Flynn, rivelano una diminuzione a livello globale del quoziente intellettivo, le cui cause sembrano essere determinate dall’uso eccessivo dei Social con in testa i videogiochi, dalla diminuzione della qualità dell’istruzione e dal tempo sempre più limitato riservato alla lettura di testi su carta. Contrariamente alle evidenze, la nostra potrebbe essere considerata “l’età d’oro dell’ignoranza”. Sostiene, Peter Burke che «anche se siamo consapevoli di sapere di più rispetto alle generazioni precedenti, siamo molto meno coscienti di quello che esse sapevano e che noi non sappiamo […]. Nel passato, una ragione fondamentale dell’ignoranza delle persone era la scarsa quantità di informazioni che circolavano nella società […]. Oggi è l’abbondanza a diventare un problema. Gli individui sono sommersi da un diluvio di informazioni e sono spesso incapaci di selezionare quel che vogliono o di cui hanno bisogno […]. Di conseguenza, la nostra cosiddetta “società dell’informazione” alimenta la diffusione dell’ignoranza».
Nel bilancio dello Stato italiano la voce dell’istruzione è una delle più consistenti: 50 miliardi su circa mille miliardi complessivi
Nella specifica situazione italiana pesano almeno altre due circostanze. La prima è rappresentata dalle conseguenze negative (e quelle positive ci sono certamente state, ma in genere in altri àmbiti) del Sessantotto, che si è manifestato dovunque ma solo in Italia è stato chiesto, e irresponsabilmente ottenuto, il 6 e il 18 politico e gli esami di gruppo. La seconda è invece costituita dalle riforme costanti che si sono succedute dagli anni Settanta in poi fino alla deriva di quelle degli anni Novanta che, in un crescendo rossiniano, hanno reso ingovernabile di fatto un sistema già di suo assai complesso e delicato. Ovviamente, come quasi dovunque nei paesi sviluppati, esistono eccellenze indiscutibili tra docenti, studenti e laureati, che rendono credibile l’intero sistema ma, purtroppo, non rappresentano la maggioranza o la tendenza prevalente. Osserviamo, tra le tante incongruenze, le disposizioni che di fatto impediscono ogni forma di bocciatura (impedendo una graduazione dell’impegno), la selezione dei docenti scolastici e universitari (dove il precariato si alimenta costantemente), l’autonomia scolastica e universitaria (a volte declinata come irresponsabilità), il numero crescente di docenti a fronte della diminuzione degli studenti (con problemi evidenti di danni all’Erario), la riforma accademica del tre più due (che non a caso qualcuno, previgentemente, sommava arrivando allo zero – G.L. Beccaria, 2003). Infatti, non si è ridotto il divario dei laureati rispetto alla media europea e sono invece in crescita i giovani che non studiano e non lavorano.
L’OCSE rileva che quasi il 27% degli italiani è analfabeta funzionale
Proviamo a mettere in fila quattro aspetti: la capacità di comprensione dei testi scritti, l’analfabetismo funzionale, la percezione della realtà e la disinformazione sui Social. Tullio De Mauro ricordava che i nostri connazionali per oltre il 75 per cento non riescono a comprendere un testo complesso in italiano, l’OCSE rileva che quasi il 27 per cento di italiani è analfabeta funzionale mentre uno studio dell’Unione europea sottolinea il primato italiano delle fake news su Facebook. Si tratta delle stesse persone che rispondono ai sondaggi, che viaggiano sui Social e che votano. Tutto questo deve indurre a riflettere seriamente sulla reale natura della democrazia nel nostro Paese, oltre che sulle possibilità di sviluppo economico futuro. Un altro dato significativo è l’emigrazione dei cervelli verso l’estero, che sta diventando sistematica: siamo il primo Paese europeo che esporta giovani e quello che ne attrae di meno, poiché a ogni giovane straniero che arriva in Italia, ne corrispondono 7,5 che se ne vanno. I numeri dell’Istat fanno riferimento al periodo 2011-2021 e alla fascia di età tra i 20 e i 34 anni, registrando 377mila partenze verso l’estero a fronte di 51mila arrivi.
Siamo il primo Paese europeo che esporta giovani e quello che ne attrae di meno
Sebbene le differenze territoriali siano presenti in tutti i paesi, la disuguaglianza italiana è molto marcata e si traduce a livello educativo nella differenza di 1 anno e mezzo tra studiare nelle scuole del Nord e quelle del Sud. A conferma di questo dato c’è quello della povertà educativa, che già adesso fa intravedere quale potrebbe essere nei prossimi anni lo sviluppo economico, democratico e civile delle diverse aree del Paese. Con prospettive francamente preoccupanti. Le conseguenze delle politiche educative sviluppate dal Sessantotto ma ancora di più dalle riforme costanti che si sono succedute dalla fine degli anni Novanta in poi, hanno sviluppato un abbassamento progressivo degli studi che, complessivamente, nelle Scuole e nelle Università, ha finito con l’allargare le distanze – e quindi le opportunità ‒ tra figli di famiglie ricche e figli di famiglie povere, determinando una sorta di facilismo amorale. Per tale stato di cose, hanno contribuito tanti fattori. Tra questi, indubbiamente la formazione e la selezione dei docenti scolastici e universitari. Dal nostro punto di vista, questo rappresenta il punto di debolezza maggiore, inquadrando il cattivo insegnamento come una “violazione costituzionale” che impedisce la realizzazione delle previsioni di uguaglianza fra i cittadini. Inoltre, da un lato l’autonomia scolastica e universitaria a volte viene declinata come irresponsabilità, dall’altro le politiche governative hanno a volte considerato Scuole e Università come ammortizzatori sociali per studenti e docenti piuttosto che luoghi dove ridurre le disuguaglianze sociali e costruire il futuro del Paese.
Si è determinata un’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla realtà, in quanto non abbiamo ancora coniato le parole per descrivere quello che abbiamo già davanti
Ci sono alcuni aspetti sui cui soffermarsi per poter immaginare il futuro. Il primo è quello relativo alla trasformazione antropologica che riguarda le persone, che stanno vivendo in tre dimensioni contemporaneamente: fisica, virtuale e ibridata, con quest’ultima condizione che sarà prevalente, anzi, secondo Kevin Kelly, “inevitabile”. Di conseguenza, si è già determinata un’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla realtà, in quanto non abbiamo ancora coniato le parole, i concetti mentali, le categorie culturali per descrivere quello che abbiamo già davanti, che invece continuiamo a catalogare con un linguaggio scaduto e inadeguato. A cominciare dalla regolazione legislativa, che utilizza categorie giuridiche che fanno riferito alla sola dimensione fisica (utilizzata anche quando si intende normare il contesto digitale) e alla dimensione nazionale (che in un mondo globalizzato è sempre meno significativa). L’altro aspetto è rappresentato dalla disinformazione che sta plasmando la società e che si realizza in un modo molto preciso: la dismisura delle informazioni da un lato e il basso livello sostanziale di istruzione dall’altro. Questa combinazione determina un corto circuito cognitivo che allontana ancora di più le persone dalla sempre difficile comprensione della realtà. Di attualità bruciante è la lotta tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, il cui esito è tutt’altro che scontato. Restando nel contesto, l’educazione al digitale, e in particolare alla sicurezza informatica, diventa inevitabilmente una materia di base, da insegnare fin dalle elementari. E ciò non solo per evitare i rischi ma soprattutto per cogliere le straordinarie opportunità di conoscenza che la Rete dischiude. E un uso consapevole si può ottenere solo attraverso l’educazione. Connesso con la trasformazione del lavoro, il tema del tempo libero diventerà centrale. Per cui le Scuole e le Università non solo dovranno formare a come si lavora ma soprattutto a come si vive, per utilizzare in maniera vantaggiosa per sé e per la società il maggiore tempo libero a disposizione, visto che saremo destinati a lavorare per un settimo della nostra esistenza.
L’educazione al digitale diventa inevitabilmente una materia di base
Altra dinamica inevitabile è quella demografica. Gli studenti delle Scuole e delle Università sono destinati a essere sempre di meno. Questo dovrebbe già da ora regolare le assunzioni nelle Scuole e nelle Università, visto che tanti docenti non avranno a breve a chi insegnare. In questo quadro, non è eludibile un ridisegno delle presenze delle Scuole sul territorio, con attenzione verso il ciclo delle elementari e verso le aree interne, e delle Università tradizionali, troppo numerose sul territorio e in crescente competizione con quelle telematiche. Infine, un aspetto che diventerà centrale è quello delle disuguaglianze, accentuando quelle che già esistono tra classi sociali, territori e cittadini italiani e immigrati, con l’immigrazione ineluttabilmente destinata a crescere nei prossimi anni. Inoltre, vanno messi in luce temi sui quali di fatto poco si incide, come il consumo della droga, costantemente in espansione e che condiziona in modo strutturale la società, e le dinamiche criminali, destinate ad avere un impatto sempre maggiore. Fenomeni che alimentano il disagio sociale che rappresenta un fattore di sicurezza nazionale, potendo compromettere anche la stabilità della democrazia. Un antidoto alle disuguaglianze è una Scuola di qualità, con insegnanti realmente competenti, formati e selezionati in modo diverso. Pertanto, una Scuola costituzionale e democratica non può che basarsi sul merito, strumento principale che, attraverso l’educazione, può consentire una reale e duratura ascesa sociale. Programma necessariamente ambizioso pur se non immediatamente realizzabile, poiché nell’educazione tutto matura a decenni di distanza. Occorre allora una riforma strutturale non di semplice “manutenzione del dolore”, che si occupano di interventi di dettaglio senza intervenire sull’ossatura, dato che non stiamo vivendo una semplice trasformazione, magari più accentuata delle altre, ma una autentica metamorfosi del mondo, paragonabile all’avvento dell’uomo Sapiens che subentra all’uomo di Neanderthal. Un vero e proprio salto di specie, uno spill over.
Siamo già immersi in una nuova epoca in cui l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sull’educazione potrà essere molto forte
Siamo già immersi in una nuova epoca che potrebbe fare datare provocatoriamente in modo diverso il tempo nel mondo: non più dalla nascita di Cristo, un evento così straordinario che ha aperto una nuova èra, ma dalla commercializzazione dell’iPhone, che dal 2007 in poi ha completamente trasformato le nostre vite. Pertanto, i recinti disciplinari dei saperi tradizionali vanno necessariamente contaminati. Per restare nell’ambito pedagogico, non si può salire in cattedra senza avere cognizione delle neuroscienze, della genetica, della psicoanalisi. Non a caso c’è chi sostiene, come Laurent Alexander, che la pedagogia potrebbe diventare una branca della medicina. E poi ancora, sono necessarie competenze di sociolinguistica, di intelligence, di futuro, di identità nazionale e culturale, di arte, di bellezza, di architettura, di cultura del dato, così come di informatica e soprattutto di Intelligenza Artificiale. Il tutto, appunto, finalizzato a reggere il confronto con l’Intelligenza Artificiale, accorciando e potenziando i tempi di apprendimento umano e facendo ricorso ai poteri sconosciuti della mente. In questo momento, vanno inoltre seguite le esperienze educative del metaverso che si stanno sviluppando in tante Scuole italiane. Ovviamente, questi aspetti hanno risvolti che da un lato possono portare all’elevazione umana e dall’altro al definitivo condizionamento. Contesti da maneggiare con cura assoluta ma che in ogni caso non si possono eludere poiché l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sull’educazione, già nell’immediato, potrà essere molto forte e richiede insegnanti adeguatamente preparati, poiché il loro ruolo rimarrà nei prossimi anni sempre centrale.
Mario Caligiuri, Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche educative