Molto spesso, in riferimento alla politica italiana, si cita la famosa battuta di Flaiano: “La questione è grave, ma non è seria”. La mia sensazione è che non abbiamo ancora del tutto compreso le conseguenze dei fatti accaduti domenica al Quirinale.
Sono ancora in campo le fazioni, chi sta con una parte e quindi vede tutto con lenti di un certo colore, e chi sta dall’altra e percepisce una visione completamente diversa. Il dibattito si è incentrato su: ha fatto bene Mattarella oppure ha fatto male. Non c’è spazio per analisi che abbraccino il quadro generale.
Durante la crisi dell’Euro, proprio su queste colonne, abbiamo più volte espresso l’opinione che lo scenario di un Italia fuori dall’Euro era – in quel momento – uno scenario dalle probabilità trascurabili. Non abbiamo però neppure mai nascosto i grandi problemi della moneta unica (che dovrebbe invece essere una moneta comune) ed all’epoca dicevamo che le istituzioni europee avevano tutti i margini per risolvere la crisi poiché si trattava in primo luogo di una crisi politica, non economica. Il problema non era il debito pubblico di questa o quella nazione, il problema era come l’Euro è stato progettato: ovvero un’area monetaria senza alle spalle un banca centrale con tutte le funzioni delle altre banche centrali e senza un governo unico che armonizzi le politiche economiche e fiscali.
A distanza di circa un lustro, ormai lo scenario sta cambiando.
Aver messo una pezza sulla crisi con il “what-ever-it-takes” di Mario Draghi (famosa espressione che ha dato inizio alle politiche di acquisto dei titoli di stato, aggirando sostanzialmente il presunto vincolo di finanziare gli stati membri dell’area euro) ha placato la manifestazione più virulenta del problema, ma non lo ha minimamente scalfito.
Negli anni il sentimento anti-Europa si è fatto sempre più forte. Abbiamo assistito alla Brexit, evento che ha distrutto il mito dell’irreversibilità del progetto europeo.
Sempre più persone sono consapevoli dell’insostenibilità a lungo termine dell’area Euro senza cambiamenti strutturali nelle regole di governo di questa moneta.
I movimenti populisti che fanno leva sullo scontento delle persone stanno conquistando ruoli politici sempre più rilevanti. Il problema è che nelle varie nazioni questi movimenti hanno tesi contrapposte perché si basano su narrazioni opposte. Nei Paesi “rigoristi” la narrazione è che loro dovrebbero pagare i debiti degli spendaccioni corrotti del sud Europa. Per questi ultimi, la narrazione è che ci sarebbe un preciso progetto politico di lento strangolamento delle loro economie attraverso l’imposizione della moneta dal valore troppo elevato rispetto alle necessità di quelle economie ed attraverso le politiche di austerity.
La questione si fa molto seria perché gli spazi di manovra si sono drammaticamente ristretti rispetto all’inizio della crisi dell’euro. Aver ignorato il problema per molti anni, cullandosi del fatto che i mercati finanziari si erano normalizzati (come se i mercati finanziari fossero l’unico indicatore che conta) ci ha portato in una situazione nella quale correggere i problemi sta diventando sempre più difficile.
Al di là delle legittime prerogative del Presidente della Repubblica, al di là delle buone intenzioni, rimane il fatto che non aver firmato la nomina del prof. Paolo Savona a Ministro dell’Economia, implica la certezza che la prossima campagna elettorale sarà incentrata sul tema Euro-sì/Euro-no (se ci va bene: Euro-come).
Aver motivato il rifiuto, con un discorso sostanzialmente politico, sulla base del dovere di tutelare i risparmi degli italiani ed aver incaricato a Presidente del Consiglio dei Ministri, Cottarelli, un “simbolo” delle politiche di rigore, ha fornito delle formidabili argomentazioni per la prossima campagna elettorale proprio a quella parte che si è inteso limitare.
Non intendiamo entrare nel giudizio sulla cronaca (chiunque non sia accecato dalla fazione non può non vedere che la responsabilità del fallimento del governo è quantomeno condivisa), ci interessa invece sottolineare le conseguenze molto preoccupanti che ci aspettano.
Con il massimo rispetto per la Grecia (nazione molto orgogliosa, culla anche della nostra cultura), sul piano economico l’Italia non è la Grecia, ha un peso economico-finanziario non confrontabile. Una campagna elettorale del tipo di quella che ci aspetta, all’interno di una nazione chiave per la sussistenza stessa dell’Euro, è foriera di un’estremizzazione delle posizioni che non lascia auspicare niente di buono.
Non dobbiamo dimenticare che a Maggio 2019 ci saranno le elezioni Europee.
Alla luce di ciò che è ragionevole attendersi oggi, il prossimo governo italiano non potrà che essere o frutto di un’alleanza di centro-destra con la posizione egemonica della Lega, oppure frutto di un nuovo “contratto” Lega-M5S con una posizione della Lega molto più forte.
Dopo tre mesi estivi particolarmente caldi, direi bollenti (e non solo per questioni meteorologiche), avremo il nuovo governo, insediato sulla scia di una campagna elettorale incentrata sui temi Europei, che si troverà ad affrontare altri sei mesi di campagna elettorale sugli stessi temi.
Dalla metà del 2019 si potrà, forse, iniziare a ripensare l’intera costruzione economica del progetto Europeo. Purtroppo – al momento – osserviamo con tristezza come il percorso che ci condurrà a quel momento renderà l’intero processo molto più complicato.
Tutto questo ci fa pensare che la situazione sia sicuramente seria, perché i temi che sono sul tavolo riguardano interessi importantissimi per centinaia di milioni di persone, temi sui quali sono radicate profonde convinzioni molto divergenti, temi che s’intrecciano con un caleidoscopio di legittimi (e meno legittimi) interessi contrastanti di attori diversi, principalmente economici e politici. Insomma, una questione alta, che riguarda il futuro di molte nazioni. La questione è anche evidentemente molto grave, perché i rischi di una implosione dell’area euro nel giro di 2-3 anni, oggi, non sono più trascurabili come lo erano 5 anni fa.
Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio