Omicidio Matteo Bottari, quindici anni senza risposte

Messina, 15 gennaio 1998

Era una sera umida e piovosa, come capita spesso a Messina d’inverno. Gli agenti erano cauti, atteggiamento tipico dopo una segnalazione anonima: l’auto, ferma in mezzo alla strada a fanali accesi, sembrava in effetti far parte di una faccenda da prendere con le dovute precauzioni. Li spaventava la diffusione capillare di reati a mezzo di armi da fuoco in città: non si sapeva mai cosa potevi trovare sul luogo del delitto, che poteva essere commesso in qualunque momento. Più che logica, quindi, l’opinione che prendeva piede nelle forze dell’ordine: chi sparava, contro agenti o civili, meritava l’inferno.
Come a sottolineare il rischio di insidie nascoste in quella chiamata senza nome, la pioggia sferzò più forte la strada; e dalla macchina sospetta ancora nessun segno di vita. Il classico caso di abbandono d’auto rubata? Sarebbe stato chiedere fin troppo al cielo. Uno dei due agenti si puntò la torcia elettrica al polso; era già qualche minuto che si trovavano sul posto, senza che nulla si fosse mosso. Continuò ad illuminare nervosamente ora l’orologio, ora il perimetro subito davanti ai propri piedi, senza mai osare puntare la torcia direttamente nell’abitacolo. Chissà cosa stava succedendo là dentro? Curiosità e repulsione si alternarono ancora in un ultimo silenzioso attimo, poi lampi blu e sirene amiche ricordarono ai due agenti che c’erano tante strade da pattugliare con quel tempo infame, e con un guizzo coraggioso la torcia finalmente illuminò ciò che riempiva l’Audi S4 rinvenuta al civico 26/M di Via Nuova Panoramica Dello Stretto, all’incrocio con Viale Annunziata, come anticipato dalla telefonata anonima giunta alle 21.20, e che li aveva condotti fin lì.
“Oh, cazzo”, fu ciò che alitò il poliziotto più giovane. E ciò che non disse, invece, fu che quella era la classica nuvola nera che precedeva una bella tempesta di merda; ma in effetti, a giudicare da come era conciato l’uomo senza volto riverso sul posto di guida, la prima frase era l’unica davvero efficace.

Li ascolto mentre chiamano la Squadra mobile, mentre parlano di un probabile omicidio mafioso. “Chiamate un’ambulanza!”, “Sta male, credo che morirà…”. Io non sto per morire! O almeno questo è quello che vorrei urlare, quello che urlerei se il mio respiro non fosse così debole, e l’abitacolo della mia auto così buio. Dio, aiutami. Afferro lo sterzo con tutta la forza che rimane nelle mie dita incredule, come se fosse l’unico oggetto reale di tutta questa faccenda e l’unico legame con la mia vita da sveglio, perché questo è senz’altro un incubo. Ora mi sveglio. Ora vivo.
Gli agenti parlano freneticamente, sono turbati ma costretti all’adempimento professionale. Gli accertamenti della mia identità, tramite incerte ricerche nelle mie tasche. A un certo punto vorrei anch’io che trovassero i miei documenti, vorrei che sapessero chi sono, il mio nome, quanti anni ho. Così saprebbero quant’è assurda questa storia, e la faremmo finita. Ecco, finisce che arriva l’ambulanza e siamo ancora tutti qui a fare questo gioco inutile di me che muoio nella mia auto, e loro che cercano invano il mio portafoglio come borseggiatori pentiti. Finalmente trovano la carta d’identità, e si sussurrano i miei dati come in un requiem. Matteo Bottari, messinese di nascita, professore associato alla facoltà di Medicina del Policlinico Universitario, faccio 49 anni fra un mese esatto… tanto ci voleva? Sala operatoria, luce bianca, fastidio diffuso ma non localizzato. Il medico di turno al mio ingresso nel Pronto Soccorso del Regina Margherita ha riscontrato una ferita d’arma da fuoco nella regione emimandibolare sinistra. Com’è stato possibile tutto questo? Stavo guidando, questo lo so. Un incidente? Ma no, hanno parlato di arma da fuoco. Come, chi? Io non sono così importante. Pioveva, me lo ricordo, ero al telefono e pensavo che la pioggia che batteva sul parabrezza non mi faceva sentire bene la voce di… con chi parlavo? Chi altri ha sentito lo sparo ignoto che mi ha fatto questo? Ma mentre provo a rispondermi da solo, qualcuno mi tocca il polso. Non mi piace il contatto, e ancora meno mi piace che non mi guardino in faccia. Non capisco cos’ho che non va, non capisco perché ho così freddo e perché nessuno fa niente. Dovreste correre, correre, è un’emergenza! Sento che discutono di avvertire la mia famiglia, della gravità del caso. Sono diventato un caso? È nato un caso Bottari? Ma poi il medico che mi ha accolto dichiara il mio decesso, e per un bel po’ non mi faccio più domande.

Che frase stupida: sono morto. Eppure non c’è un’altra spiegazione per il tempo distorto e lento attraverso cui osservo adesso la scena del crimine, o per il motivo per cui posso starmene appoggiato ad un palo dopo che un medico mi ha lasciato, freddo, in un lettino a chilometri da qui. Ci vogliono quasi due ore per raccogliere tutti gli indizi, per scattare tutte le foto, per prendere le misure con un metro a nastro. Che lavoraccio! E tutto sull’asfalto bagnato e tra le erbacce, alla ricerca di elementi utili alla buona riuscita delle indagini che verranno. Quel filo d’erba sarà macchiato di qualche fluido utile? E quel mozzicone l’avrà fumato il killer?
Intanto vengono fuori un frammento di pallettone in piombo schiacciato e conficcato nella portiera anteriore destra della mia auto; una parte di contenitore in plastica per cartucce da caccia rinvenuto sul sedile posteriore; un telefono cellulare Motorola con linea Omnitel sul sedile anteriore sinistro e un altro con linea Telecom, scivolato sul tappetino e sporco di sangue, per cui l’investigatore dichiara che ero al telefono al momento dello sparo… Ed è sulle sue parole che in quel momento risento e percepisco, nel profondo di me stesso e della mia residua umanità, la pallottola che devasta il mio volto.
Ricordo perfettamente, ora, il rumore della pioggia, il suono della mia stessa voce, lo strano rumore improvviso, il fragore, il silenzio del dopo. Ricordo che parlavo con mia moglie Ildefonsa Stagno D’Alcontres, e le dicevo di essere sulla via del rientro. Accidenti, Alfonsette! Ma davvero la mia esistenza meritava la fatica di un caso come questo? Di finire, per dare spazio a tutto ciò che verrà adesso?

Matteo Bottari, l’omicidio che sconvolse Verminopoli – IMG Press