di Antonio Bultrini
30/01/2013
In seguito al messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica sulla questione delle carceri, riproponiamo ai lettori un articolo che mantiene, purtroppo, tutta la sua attualità.
A inizio gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo ("la Corte") ha condannato l’Italia in seguito al ricorso proposto da sette detenuti (tre italiani e quattro stranieri) negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza (Torreggiani e altri contro Italia). La Corte ha appurato che i ricorrenti erano stati a lungo reclusi in celle di nove metri quadri occupate da tre persone.
Svolta
Ciascuno di loro aveva dunque fruito di uno spazio inferiore allo standard minimo di quattro metri quadri per detenuto stabilito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (il meccanismo specializzato del Consiglio d’Europa). A Piacenza la ristrettezza eccessiva della cella era stata aggravata dalla mancanza prolungata di acqua calda e da illuminazione e ventilazione insufficienti.
Nel ricordare che gli Stati debbono “assicurarsi che (…) le modalità di esecuzione (…) non sottopongano l’interessato a una sofferenza che ecceda il livello inevitabilmente connesso alla detenzione” (sentenza citata, § 65), la Corte ha accertato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, e ha accordato ai ricorrenti un totale di 99600 euro a titolo di risarcimento del danno morale.
La sentenza in questione rappresenta una svolta rispetto alla precedente pronuncia del 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanović contro Italia (citatissima, nonostante la minore gravità dei fatti, proprio perché era stata vista come il preludio di un serio contenzioso a Strasburgo con riferimento alla situazione nelle carceri italiane). Torreggiani e altri è infatti una “sentenza-pilota”: la Corte accerta l’esistenza di un problema strutturale, corroborato da un elevato numero di ricorsi simili, e impartisce al governo un termine entro il quale predisporre un ricorso interno efficace e adottare misure generali appropriate.
La tecnica delle sentenze-pilota persegue un duplice obiettivo: da un lato mettere sotto pressione il governo interessato, dall’altro evitare che la Corte sia oberata dalla mole di ricorsi riguardanti il medesimo problema strutturale. Gli altri ricorsi sono dunque tenuti in sospeso, nella speranza che possano essere poi trattati dalle autorità nazionali (una volta istituita una via di ricorso interna efficace oppure mediante composizione amichevole). Se tuttavia il termine dovesse decorrere inutilmente, la Corte sarebbe allora costretta ad occuparsene, con tutto quello che ne conseguirebbe (anche in termini di risarcimenti).
In attesa di giudizio
Nel caso Torreggiani e altri l’Italia dispone di un anno per introdurre innanzitutto un ricorso efficace, cioè idoneo ad ottenere il miglioramento delle condizioni di detenzione. La via di ricorso (al magistrato di sorveglianza) al momento disponibile non ha tale caratteristica, anche perché le relative decisioni non vengono attualmente eseguite a causa, appunto, della natura strutturale del problema. Inoltre, è in pratica molto difficile chiedere una riparazione per le condizioni inumane o degradanti della detenzione.
La Corte ha anche richiamato l’attenzione dell’Italia sulle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in materia, le quali promuovono il ricorso a misure alternative alla detenzione e una rielaborazione della politica penale nel senso di intendere il carcere come extrema ratio limitata ai casi in cui “la gravità del reato è tale da rendere qualunque altra misura o sanzione manifestamente inadeguata” (Raccomandazione 99/22 del 30 settembre 1999).
Il trattamento dei detenuti è in ogni caso uno dei riscontri cruciali del livello di tutela dei diritti fondamentali. Per il detenuto in attesa di giudizio la detenzione, che costituirebbe una carcerazione ingiusta qualora dovesse essere prosciolto, diventa supplizio se per di più si svolge in condizioni inumane.
La Corte, peraltro, è stata colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane sono proprio persone in attesa di giudizio. Per il colpevole, condizioni di detenzione inumane costituiscono un inasprimento gratuito della pena, in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione e a danno della sicurezza di tutti: gran parte degli esperti sottolineano che il lavoro dei detenuti e, qualora non sussistano seri motivi ostativi, il ricorso a misure alternative minimizzano il rischio di recidiva e facilitano il reinserimento del condannato.
Va detto che nel caso italiano la Corte ha escluso qualunque intenzione di umiliare i detenuti e ha dato atto di qualche modesto progresso in seguito ai provvedimenti urgenti adottati nel 2010. Una corretta attuazione della sentenza-pilota, tuttavia, richiede non solo interventi in ambito strettamente carcerario, ma anche un ripensamento delle politiche penali, ovvero un ridimensionamento del ricorso alla detenzione e l’individuazione di sanzioni alternative.
Ridurre il sovraffollamento delle carceri conviene certamente al Governo, che eviterebbe di dover affrontare le centinaia di cause pendenti a Strasburgo, ma anche al sistema-paese: prigioni più umane dovrebbero essere infatti il riflesso di un sistema penale meno afflittivo anche perché ripensato in un’ottica di efficacia e di prevenzione.
La condanna della Corte di Strasburgo, peraltro, conferma la fondamentale importanza, per l’Italia paese, del “vincolo esterno” europeo, senza il pungolo del quale certi nodi strutturali difficilmente verrebbero affrontati con decisione – o tout court. E pensare che fu un italiano, la cui opera ebbe un’eco anche nel resto dell’Europa, a scrivere, nel lontano 1764, che “il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre”; “tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi” (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, § XIX; § II).
Antonio Bultrini è professore di Diritto Internazionale e Diritti Umani, Università di Firenze