Nel 160esimo anniversario l’impresa dei Mille viene per la prima volta raccontata da entrambi i lati della barricata. A testi divenuti ormai classici – le testimonianze personali di Giuseppe Cesare Abba (Noterelle di uno dei Mille. Da Quarto al Volturno) e di Giuseppe Bandi (I Mille. Da Genova a Capua), la ricostruzione di George Macaulay Trevelyan (Garibaldi e i Mille) – si contrappone il resoconto pressoché sconosciuto, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, di Giuseppe Buttà. Più di tanti altri libri giustamente celebrati (la storia degli ultimi Borboni di Harold Acton, la Fine di un Regno di Raffaele Di Cesare), questo di Buttà regala un appassionante dietro le quinte, che suscitò l’ammirazione anche del giovane Sciascia.
Nato a Naro, provincia di Messina, nel 1826, borbonico fino al midollo, nemico giurato del liberalismo, Buttà era il cappellano del IX battaglioni cacciatori di Francesco II, cui resterà fedele fino all’ultimo giorno. Da quell’osservatorio privilegiato Buttà visse in prima linea gli episodi cruciali, che condussero alla dissoluzione del Regno. Dalle strade di Palermo alla mischia selvaggia di Milazzo, dagli intrighi di Napoli alla giornata decisiva sul Volturno Buttà ha scritto la contro cronaca della vicenda più determinante del Risorgimento, quella che dette uno Stato ai Savoia. In essa Garibaldi e i Mille rappresentarono la spinta conclusiva, che niente però avrebbe ottenuto senza la corruzione e il tradimento dilaganti per i troppi errori del governo borbonico e per i tanti denari profusi da Cavour.
Mille aneddoti e altrettanti pettegolezzi spiegano dall’interno la dissoluzione in sei soli mesi di quel Regno delle Due Sicilie, che sulla carta appariva la principale potenza della Penisola. Un esempio su tutti: la dimostrazione che a Calatafimi la superiorità numerica fu dei garibaldini dall’inizio alla fine e che si trattò di una rissa più che di una battaglia.
Alfio Caruso